Una delle esperienze più esaltanti di un bambino che si accosti per la prima volta al mondo del pallone è rappresentata dalla presenza di un padre tifosissimo, conosciuto in città per la sua inossidabile fede calcistica e bene inserito anche negli ambienti frequentati dalla squadra.
Questo stimolante viaggio iniziatico è toccato anche a me, a partire dalla stagione 1975-1976, con le prime apparizioni sui gradoni del Vestuti e le acrobazie vincenti di Miguel Vitulano a rapire occhi e cuori degli assidui frequentatori dell’infuocato catino di Piazza Casalbore.
Un cammino intrapreso quarantacinque anni fa, vissuto per oltre tre decenni accanto ad una sorta di genitore sacerdote, costantemente capace di schiudere nuove finestre emozionali sulle eccitanti liturgie che animano da sempre il variegato universo della Salernitana.
Il primo vivido ricordo impresso nella memoria è un dopopartita gelido risalente all’annata 1976-1977, quando mio padre, amico di mister Carlo Regalia, decise di farmi respirare il confortevole tepore dello spogliatoio granata, in quel momento immerso nel pieno fermento dialettico di un match terminato da poco più di mezzora. Un premio per i risultati scolastici, ma anche un modo per consentirmi di abbracciare in fretta la fede per l’Ippocampo, uno dei principali elementi fondativi della salernitanità.
Lo stanzone trasudava serenità e soddisfazione: la Salernitana aveva appena ottenuto, contro il Benevento, la seconda vittoria in sette giorni, dopo aver domato il Trapani la domenica precedente. Matador granata, in entrambe le occasioni, bomber Mujesan, una sorta di Lucio Battisti prestato al calcio.
Mio padre, intanto, rideva e scherzava con mister Regalia, mentre io, sempre più estasiato, me ne stavo ad osservare timidamente quell’euforico conciliabolo di gruppo, realizzabile solo da una squadra reduce da due successi consecutivi. Dinamiche calcistiche e psicologiche che avrei appreso diversi anni dopo.
All’improvviso, una figura inquietante si alzò dalla panca su cui erano seduti gli atleti e si diresse verso di me, senza mai staccare lo sguardo corrucciato dalla mia figura. Un subitaneo imbarazzo intriso di timore colorò di rosso fuoco le mie guance, costringendomi a fare due passi indietro. A ‘puntarmi’ era Giuseppe Papadopulo, terzino destro di quella Salernitana, futuro allenatore di diverse squadre di serie A e B.
“E tu cosa ci fai qui dentro?”, mi chiese con spiccato accento toscano mentre la sua mano destra scompigliava il mio lungo caschetto biondo. Io non dissi una parola e cercai conforto nello sguardo protettivo del babbo, ma la sua chiacchierata con il mister procedeva senza soluzione di continuità.
Papadopulo avvertì il mio spavento, abbandonò l’espressione cupa dipinta sul suo volto fino a quell’istante, si voltò verso il resto della squadra e con divertita scontrosità pregna di umanità, che avrei in seguito apprezzato negli atteggiamenti da burbero dal cuore tenero tanto familiari a ‘Ginettaccio’ Bartali, disse testuali parole: “Ehi voi, brutta gente, portate una cioccolata calda al bambino, invece di perder tempo a parlare delle vostre prodezze”. Risata generale e bevanda che, invitante e fumante, mi venne consegnata in un capiente bicchiere di carta rigorosamente granata. Papadopulo si sciolse finalmente in un sorriso, prima di congedarsi con un occhiolino carico di complicità. Pochi minuti dopo, entrambi soddisfatti, io e mio padre uscimmo dallo spogliatoio per raggiungere l’auto che ci avrebbe riportati a casa.
Ho ripensato spesso a quell’esperienza, arricchendola negli anni con l’ausilio delle fantasie più svariate. Soprattutto quando sono venuto a conoscenza dell’antica discendenza greca dell’ex allenatore di Lazio e Bologna. Da quel momento, ricordando la sua espressione facciale fiera e determinata, ho sempre immaginato Papadopulo come un indomabile oplita spartano che, protetto da elmo corinzio e impugnando la lancia di Achille, affronta senza paura il temibile esercito persiano
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