Una volta chiesero ad un maestro di giornalismo (Rino Tommasi) quale fosse il miglior libro di sport mai scritto.
Rispose che il migliore era Friday Night Lights (66th and 2nd ed.).
Ho aspettato per anni che uscisse la traduzione in italiano non prima di aver visto il film con Billy Bob Thornton.
Poi finalmente anni dopo il libro è stato pubblicato in italiano.
Ormai ero pronto a leggere un bel libro che parlava di uno sport che adoro insomma conoscevo vita morte e miracoli senza neanche aver aperto la copertina.
Ogni pagina che veniva letta, ogni riga, ogni parola ha accresciuto in me una consapevolezza. Che Odessa,questa città nata nella polvere e cresciuta con le trivellazioni di petrolio, non è dissimile a quello che era Salerno qualche tempo fa.
Con una piccola e forse fondamentale differenza: mentre a San Giovanniello o a Torrione la passione era per giocatori fatti e finiti, ad Odessa una comunità intera sognava e faceva il tifo con notti passate in fila per avere i biglietti per dei ragazzi di 17 anni che erano trattati alla stregua di star anche se spesso non riuscivano a risolvere un equazione di primo grado.
L’autore H.G. Bissinger (già vincitore di un premio Pulitzer per aver smascherato un sistema di corruzione a Philadelfia) decide di prendersi un anno sabbatico dal suo posto comodo e ben pagato per andare li per un anno insieme a moglie e figli, vivendo nei loro bar, ascoltando le radio dove si parlava dei Panthers 24 h al giorno, lì, nel “Peggiore posto del mondo”, dove i cittadini si dividevano in due categorie.
Di qua la comunità afroamericana, di là quella degli operai e dei petrolieri bianchi.
Tutte e due con la sinistra caratteristica di imbracciare una bibbia in una mano e una semiautomatica nell’altra.
Ecco, l’Odessa raccontata in questo libro è una sorta di inferno in terra. Tanto da entrare al secondo posto negli Usa per media di omicidi in un anno.
La bellezza di questo libro sta proprio in questo. È raccontare le storie dei ragazzi come Bobbie Miles, che, nonostante sappia scrivere e leggere a stento, riceva per le sue performance inviti dalle migliori università del Paese fino al giorno in cui il suo crociato lo abbandona e con il tempo la sua parabola comincia ad avere una curva discendente, sempre più rapida, fino ad atterrare in un carcere statale.
O di Mike Winchell, il quarter back che non regge la pressione e comincia le sue partite con una sonora e roboante vomitata.
O di Brian Chavez, quello dotato di forza fisica e voglia di studiare (l’unico della squadra che poi si laureerà ad Harvard).
O di Ivory Christian, il giocatore che non sa se continuare a spezzarsi la schiena sul campo o praticare la parola di Dio e diventare pastore.
Partendo da queste storie personali, Bissinger allarga il suo racconto allo scenario politico-sociale descrivendo, con dovizia di particolari, il desiderio dei cittadini di tornare al periodo in cui era presidente Reagan o le speranze di un ritorno in grande stile dello Stato con la stella solitaria.
E sullo sfondo la crisi petrolifera che prende di colpo tutti. Persone che passano da viaggiare con gli aerei personali alla indigenza totale.
Ma su queste storie, a volte minime a volte grandi, si erge il meraviglioso stadio che è costato alla comunità un bel pò di milioni di dollari, le cui luci da lontano illuminano la vita di tutti, almeno per il venerdì sera e affanculo le tensioni razziali, la carenza di posti di lavoro, la mancanza di fondi scolastici per gli studenti senza casco e paraspalle.
Perché la verità sta proprio in questo passo:
Ecco l’identità, non quella sbandierata sulle sciarpe e sugli adesivi o sui meme dei social.
L’identità che viene proprio da chi non ha niente e si aggrappa ad una sola cosa nella vita:
La propria fede sportiva.