Storie

Antonio D’Angelo, genesi e sfioritura di un talento non colto.

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Avevo undici anni quando nell’autunno del 1980, entrando nel suo studiolo domestico, vidi mio padre, ormai quarantenne, singhiozzare come un bambino reduce da un brutto voto scolastico. Un pianto inconsolabile, attraversato da potenti singulti, di quelli che lacerano l’anima di chi osserva e spingono immediatamente ad abbracciare la persona in preda alla sofferenza.

Quell’immagine mi preoccupò non poco, al punto da chiedergli, ormai dominato da uno stato di intensa agitazione, se fosse accaduto qualcosa di grave in famiglia. Mio padre alzò lo sguardo e con un cenno rapido della mano allontanò le paure che avevano iniziato ad assalirmi.

”Mi hanno appena avvertito della morte di Antonio D’Angelo, perito in seguito ad un incidente stradale. Lo ricordi? Ha giocato con noi fino allo scorso anno, era un amico, ogni martedì mattina facevamo colazione insieme ed io gliela offrivo volentieri”, mi disse sforzandosi di contenere la commozione che lo pervadeva.

Avevo iniziato da qualche anno a seguire la Salernitana, ma ricordavo vagamente le gesta tecniche del talentuoso centrocampista nativo di Altamura. Anche perché le mie domeniche al ‘Vestuti’ erano ancora calamitate dall’atmosfera di festa che si respirava sugli spalti e, soprattutto, da quel vivido colore granata che dominava all’interno del rumoroso folclore della mitica Curva Sud/Nuova.

Amavo andare allo stadio nelle radiose giornate invernali, quando il cielo era azzurro, limpido e fungeva da perfetto sfondo a quel trascinante sventolio di bandiere e sciarpe, mentre il tribale rullo dei tamburi regalava entusiasmo e, allo stesso tempo, una sottile inquietudine.

Si trattava di un caos bene armonizzato, che accarezzava mente e cuore e ti lasciava anche trepidare perché, seppur confusamente, respiravi già il clima di battaglia calcistica che si sarebbe scatenato da lì a pochi minuti.

Attorno a me era un pullulare di volute di fumo di sigarette, di caffè Borghetti tracannati in un sol voluttuoso sorso dagli stessi incalliti fumatori, ma anche un chiacchiericcio a più toni sui temi dominanti della settimana che aveva preceduto la partita.

Gli ‘anziani’ insomma, fra sbadigli e innocue sensualità, attendevano il fischio d’inizio, io non mi perdevo un solo istante di quanto accadeva all’interno dello stadio di Piazza Casalbore, afferrando anche i dettagli più insignificanti e restando ipnotizzato dai pittoreschi atteggiamenti della varia umanità che transitava dalle mie parti.

“Si, babbo, adesso comincio a ricordare le giocate di D’Angelo. Era quel calciatore non molto alto, con la fila dei capelli a lato e la zazzera che scivolava sul collo? Era bravo, vero?”, gli dissi per provare a sollevarlo un po’ dalla sua verace tristezza.

“Giocava bene a calcio, trequartista dal gol facile, ma non è mai andato oltre la serie B. Peccato, avrebbe meritato molto di più”. Le ultime parole furono seguite da un silenzio riflessivo, come se la mente fosse intenta a ripercorrere i momenti salienti dell’esperienza calcistica vissuta a Salerno dal forte centrocampista pugliese, autore di una decina di gol nell’arco temporale ’77-79′.

Poi, è passata tanta acqua sotto i ponti e Antonio D’Angelo, a distanza di anni, è diventato una sorta di parametro per mettere a confronto la qualità tecnica dei calciatori anni 70/80 con quella esibita nell’ultimo ventennio dai protagonisti del calcio nostrano.

Mio padre infatti, lasciandosi precedere da una smorfia che esprimeva sconcerto dopo aver visto all’opera centrocampisti di A e B capaci solo di correre a perdifiato ma assolutamente sprovvisti di estro ed iniziativa, amava chiosare la sua nostalgica analisi con un eloquente “Tonino D’Angelo nun è mai jucat’ in serie A, ma chist jucature r’ ogg’, può sta sicuro, si mettev’ a tutt’ quant’ in ta sacc’ “.

Maurizio Iuliano

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