Impegnati nel delicato passaggio dall’infanzia all’adolescenza, i ragazzini odierni avvertono l’illusoria sensazione di appagante felicità quando sono alle prese con la play station, oppure quando si ritrovano ad armeggiare uno di quegli smartphone ‘infernali’ grazie ai quali scaricano applicazioni che introducono in un’affascinante dimensione virtuale ma, allo stesso tempo, allontanano dalla poesia che nobilita un’esistenza vissuta all’insegna della semplicità.
Ai miei tempi era diverso, la voglia di vivere era figlia della partita di calcio con gli amici nel cortile di casa, della scatola di soldatini promessa per il compleanno, dell’attesa del rientro dal lavoro di tuo padre che fingeva di aver dimenticato l’acquisto delle figurine Panini, prima di adagiare sulle tue mani impazienti le classiche dieci bustine e godersi la repentina trasformazione della delusione in gioia incontenibile.
Analoghe differenze, nel flusso inesorabile del tempo, ho avuto modo di registrare nella scelta dei ‘supereroi’ calcistici. Oggi, i propri beniamini vengono pescati dal gotha pallonaro: Cristiano Ronaldo, Neymar e Messi. Di essi si acquisiscono, per la disperazione che assale le tasche dei genitori, gli strumenti del mestiere e addirittura l’immagine: scarpette, maglie, gadget, ciuffi colorati e stravaganze assortite.
Qualche decennio addietro funzionava diversamente, ci esaltavamo alla vista della corsa rabbiosa di Roberto Pruzzo verso la curva romanista dopo aver realizzato un gol, oppure ammirando le sgraziate acrobazie di Paolino Pulici sotto lo sguardo austero del maestoso toro che troneggiava al centro della ‘Maratona’ torinista.
Ma, a volerla dire tutta con fiero senso di appartenenza, il vero, grande supereroe calcistico della mia infanzia, prossima ormai a toccare i promettenti lidi dell’adolescenza, è stato Giovanni Zaccaro da Bari, centravanti della Salernitana nel quinquennio 80-85.
Nel mio amarcord settimanale, che arriva quattro giorni dopo i festeggiamenti del suo sessantacinquesimo compleanno, desidero raccontare un po’ di lui.
Il forte attaccante pugliese, autore di una sessantina di gol (Coppa Italia compresa) in un’epoca in cui si marcava a uomo e raggiungere la doppia cifra rappresentava una sorta di prodigio, è stato il protagonista assoluto dei miei puerili sogni a tinta rigorosamente granata.
‘Giuann Zacc’r’, con il nome a precedere puntualmente il cognome, era la plastica e affettuosa dimostrazione verbale della gratitudine che la tifoseria salernitana non ha mai smesso di far avvertire al suo goleador.
Zaccaro non aveva la ‘tartaruga’ addominale di Cristiano Ronaldo, non spadroneggiava sulle riviste patinate con le sue performance mondane, ma spesso regalava una domenica felice e spensierata agli amanti dell’Ippocampo.
Baffoni da antico predatore unno, pancetta malcelata sotto la maglia che tradiva la passione per la buona cucina, il numero nove granata amava lasciare il segno nelle gare di cartello.
Il suo gol contro il Campobasso, realizzato pochi secondi dopo il fischio d’inizio in un match che metteva in palio, nella stagione 81-82, una seria ipoteca sulla promozione in B, ha fatto la storia del calcio cittadino. I tifosi più attempati ricordano nitidamente quella prodezza, vanificata sul più bello dal colpo di testa vincente del molisano Canzanese; le giovani generazioni ne hanno appreso la postuma importanza attraverso un tramandamento orale che non hai mai smesso di eccitare le fantasie popolari.
Una narrazione che ha assunto contorni fiabeschi, arricchita da aneddoti e ricordi personali. Io, ad esempio, ho ben impressa nella mente la generosa corsa sulla pista di atletica sfoderata da Michele Cuomo, storico custode e giardiniere del ‘Vestuti‘, il primo ad abbracciare Zaccaro ormai giunto sfinito sotto la ‘Sud’ a raccogliere l’ovazione della torcida granata. Michele, non più ragazzino, aveva una gamba malandata, ma il suo amore per il cavalluccio lo rese impavido nell’affrontare una pista resa assai insidiosa dalla pioggia battente di quel pomeriggio domenicale.
Storie di passioni viscerali e di salernitanità verace, indegnamente calpestate da mercanti anaffettivi e incompatibili con la dignitosa sofferenza di una fede centenaria ed incrollabile.
Zaccaro fu anche l’autore della splendida rete che valse il pari contro la Turris, messa a segno il 23 novembre del 1980, qualche ora prima del terribile terremoto che devastò Campania e Basilicata. Un pallone che sembrava destinato a perdersi sul fondo del campo, fu scaricato nella porta corallina grazie ad un tiro ad incrociare in semirovesciata scoccato del baffuto bomber. Un mix esemplare di coordinazione e cattiveria agonistica, una giocata che restituisce, a distanza di anni, una corposa dose di giustizia alle qualità tecniche non sempre riconosciute al generoso Giovanni.
Nel maggio di cinque anni fa, in occasione di una rimpatriata a Salerno, vissuta con affetto ed entusiasmo dall’intera tifoseria granata, ebbi il piacere e l’onore di intervistare Zaccaro. Ripercorremmo insieme i tanti momenti del suo esaltante lustro calcistico nella nostra città. Fu un incontro bellissimo e struggente, che mi fece scoprire anche la solidarietà e la bontà di un uomo diventato infermiere dopo aver appeso le scarpette al chiodo. Non potrò mai dimenticare la sua voce interrotta dall’emozione nel raccontare la quotidianità ospedaliera alle prese con pazienti piegati dalla sofferenza fisica e psicologica. Una lacrima, resa ancora più viva e romantica dalla luce solare che si riversava a fiotti su una confortevole terrazza di via Generale Clark, consegnò alla mia memoria l’immagine di una persona estremamente umile che, dopo aver fatto piangere per anni i portieri avversari, svelava in quel momento una commossa empatia da porre al servizio del prossimo in difficoltà.
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