Non è un problema di soldi, di bilanci, di cifre: non interessano al cuore, almeno fino ad un certo punto, le questioni di affari anche se il portafoglio gonfio aiuta ad essere più sereni e regala prospettive più rosee, ammesso che dei soldi si sappia fare buon uso.
Non è un problema di manico, perchè la macchina nella Formula 1 di oggi si guida quasi da sola ed il pilota, anche fosse un campione del mondo, lampante al punto da diventare avvilente nella sua spietatezza l’esempio Vettel, non fa miracoli.
Non è un problema di fare i tifosi, ma di esserlo: perchè il tifoso non è un mestiere, una professione, un modo come un altro per avere visibilità.
Si è tifosi di una squadra per effetto e conseguenza di una irrazionale scelta, per quella scintilla che dal cuore è arrivata alla testa e viceversa la prima volta che si sono visti dei signori (perchè quando si è bambini, anche un trentenne in pantaloncini e magliette, magari baffuto e con tatuaggi e muscoli in bella mostra, può sembrare un uomo fatto e finito di età indefinita, come Babbo Natale per fare un esempio) rincorrere un pallone indossando quella maglia e non altre. Ecco perché il tifoso sogna, soffre, s’incazza e poi ricomincia a sognare e a soffrire e torna ad incazzarsi di nuovo: il tifoso non è un dipendente, o un soldato (per citare un mestiere che il patron ama spesso tirare in ballo), non obbedisce ad un regolamento scritto da chi pensa di portare il pallone al campo.
Il tifoso è un folle in missione, che in una tasca ha la speranza e nell’altra la fede, due amiche carissime e crudeli, a volte, perchè lo inducono a pensare che prima o poi vincerà. Cosa? Non per forza coppe o scudetti, magari un derby o una promozione. Di sicuro, ciò che il tifoso non vuol perdere è il diritto di sognare e la dignità.
E ci sarebbero altre mille ragioni, tutte buone e giuste, per cui il calcio, questo enorme giro d’ affari che si aggrappa a quel sogno che ci accompagna fin da piccoli, non è solo una questione di numeri, soldi e parole preconfezionate.
E non è, soprattutto, una questione di “cazzimma”, se a questo termine più che mai abusato di questi tempi si vuol dare un’accezione geografica con nemmeno tanto lontani fini dispregiativi.
Claudio Lotito, papà di Enrico e cognato di Marco, è tornato all’Arechi con l’aria di chi aveva fretta di andar via, ma prima doveva contarne quattro, senza scaldarsi, per carità, chè non vale la pena con questi qua.
Al Lotito di sabato scorso, più che mai generale con quell’aria da “veni, vidi, vici”, preferiamo mille e mille volte il Lotito più sanguigno e vero, finanche nella sua arroganza, di tante altre occasioni, quando, pur sbagliando modi e termini, appariva più genuino. Quasi, e lo scriveremmo a caratteri cubitali, pure lui innamorato della Salernitana.