Mio padre non si accontentava di amare e seguire la Salernitana.
Lui scartava le parole ‘rischio’ e ‘impossibile’, quando nei suoi ragionamenti si materializzava la fede calcistica per i granata. Non esistevano distanze capaci di spaventarlo, e neppure eventi familiari intoccabili: il “cavalluccio non si lascia mai solo“, amava ripetere.
Ricordo nitidamente le furiose litigate con mia madre, quando lui, incurante delle legittime rimostranze della fin troppo paziente consorte, le comunicava i suoi strampalati itinerari di viaggio per il fine settimana: Agrigento, Alcamo, Civitanova Marche e tante altre mete ancora.
Conservo, indelebili ormai, le sue sfacciate giustificazioni sanitarie, esibite di volta in volta, per restare accanto alla squadra e marinare banchetti patriarcali in occasione di Prime Comunioni, Battesimi e Matrimoni. Coliche renali, emicranie intollerabili, Vendette di Montezuma violente, lombosciatalgie improvvise e invalidanti: s’inventava di tutto, pur di gabbare innocuamente i congiunti e seguire la sua squadra del cuore.
Quando si trattava di andare in trasferta, il babbo partiva quasi sempre da solo, dopo aver cercato di ‘fare la macchina’ coinvolgendo colleghi di lavoro, amici di infanzia o compagni di bagordi, quest’ultimi conosciuti coltivando l’altra sua grande passione, la tavola. Alla stregua del verdoniano Sergio, uno dei tre personaggi interpretati nel film ”Un sacco bello” dal bravo attore romano, il giovedì sera iniziava il suo estenuante giro di telefonate alla ricerca di un improbabile compagno di viaggio in salsa granata.
Gli iniziali tentativi mettevano nel mirino tifosi più ordinari, ed infatti questi si mostravano immediatamente riluttanti all’idea di andare oltre la comoda gara casalinga. Con essi, mio padre gettava sul tavolo della persuasione suggestioni meramente calcistiche, del tipo ”Se prendiamo sti due punti, scappiamo e non ci prende più nessuno”, oppure ‘‘Quest’anno il manico è buono, faremo molti colpacci anche in trasferta”.
Tutto inutile, i monitorati di turno erano fedeli alla domenica da trascorre a tavola tra pezzentelle, cotiche e ‘custarizze’, prima di abbandonare stancamente le membra sul divano e coccolare la digestione ascoltando alla radio ‘Tutto il calcio, minuto per minuto’. Incassata la sconfitta, il ‘boss’ non demordeva e focalizzava l’attenzione sui conoscenti ‘dotti’ ed intellettualoidi, senza trascurare gli amanti della buona cucina.
Le sue interlocuzioni telefoniche regalavano esibizioni cabarettistiche di rara bellezza, preso come era dalla necessità di ricordare e descrivere i particolari architettonici di battisteri e duomi, i nomi di piatti irrinunciabili da gustare in ristoranti di lusso o al caldo di infime bettole.
Niente, la sorte gli riservava nuove delusioni: all’appello nessuno rispondeva presente.
E così, dopo esser sceso a patti con la certezza di dover rinunciare alla piacevole compagnia degli amici, necessaria a rendere meno noiose le lunghe ore di viaggio, mio padre dimenticava tutto e, accompagnato da un leggero bagaglio, partiva per seguire felicemente le collaudate rotte del cuore.
Gli anni trascorrono inesorabili, la vita regala sapori più aspri, ma certi rapporti sentimentali restano intangibili nella loro purezza adolescenziale. E capisci, allora, che certi moti dell’anima sono una rassicurante melodia che mai ti abbandona, anche quando la fine dei giorni sbuca dagli anfratti delle angosce latenti, ti si para davanti e capovolge la clessidra per avvertirti che il tuo tempo sta per scadere.
La clessidra iniziò a rovesciare i granelli di sabbia il 24 ottobre del 2009.
La Salernitana, quel giorno, ospitava il Crotone, mio padre, ormai minato dalla malattia, impiegò venti minuti per raggiungere trafelatamente l’anello superiore della Tribuna azzurra. Lui doveva essere lì e, incurante delle austere prescrizioni mediche, rassicurato dalla mia tolleranza dolorosamente consapevole, riuscì ad assistere alla prestazione stagionale più bella e intensa sfoderata dalla squadra.
I granata, quasi fossero consapevoli dell’ultima presenza sulle gradinate di un tifoso con militanza sessantennale, stracciarono i calabresi rifilando loro ben quattro gol. Una sorta di carezza inattesa, balsamica in quel momento, che partì dalla mano della stagione più disgraziata dell’ultimo ventennio per regalare un effimero sollievo al suo volto sofferente.
Mesi terribili seguirono, con i risultati pessimi della squadra intersecati con i drammi della vicenda umana.
Ma non era ancora finita la lunga storia d’amore tra mio padre e la Salernitana.
Sabato 6 febbraio 2010, giorno di Modena-Salernitana, il babbo, sempre più ‘lontano’ e ormai frastornato da un preoccupante pre-coma, m’implorò, in uno dei rari momenti di lucidità, di poter assistere ad un match che, con i granata virtualmente condannati alla retrocessione, aveva ormai scarsa importanza.
Mi disse, non potrò mai dimenticarlo, che ‘la matematica ancora concedeva qualche chance di salvezza’.
“Certo, pa’….”, gli risposi subitaneamente, cercando con tutte le mie forze di soffocare il turbine emotivo che le sue parole avevano scatenato in me. Di partita ne vedemmo poca, la devastata fisiologia di mio padre cominciava lentamente a domare la sua inesauribile volontà di restare aggrappato alla vita.
Mio padre perse completamente conoscenza un paio di minuti dopo la trasformazione decisiva di Pinardi dagli undici metri.
Due giorni più tardi, il babbo salpò verso altri lidi, lasciandomi in eredità la sua incrollabile fede per la maglia granata.