Nel corso della più classica delle notti insonni ho rivissuto le attese, quelle concretizzatesi sui gradoni. Ho ripensato a quel panino, condito con tutto l’amore del mondo, preparato da mia madre (rubato alla tirannia di un cronometro proiettato alle 15 in punto), addentato nonostante avessi lo stomaco irrimediabilmente chiuso. Ho riassaporato il sospiro di densa anidride carbonica, le sigarette di mio padre – appiglio sicuro a cui ancorarsi nell’onda del furore collettivo – che scrutava il rettangolo verde, in un misto di euforia (traspariva a malapena dal suo volto) e più evidente impazienza.
Intanto gli spalti – nel processo osmotico più dolce che esista – iniziavano a gremirsi.
Ricordo il tuffo al cuore che mi provocavano due momenti precisi: l’ingresso in campo di quegli undici uomini intenti a principiare il riscaldamento e il fischio iniziale.
Ricordo altresì che, nel brulichio generale, io fissavo con intensità – si, è senz’altro il termine giusto – quell’individuo che, più di tutti, catturava la mia fantasia. Era il primo a giungere nell’arena, incurante dei fischi, sordo agli insulti recapitati da quella marea vestita di bandiere: il portiere avversario.
Fissavo, dicevo, quella minuscola porzione di campo in cui l’erba cresceva più rada e i portieri, uomini soli, svisceravano – fra voli plastici e prese sicure – la teoria dei colori.
Già, all’epoca la solitudine era un sentimento variopinto: gli anni ’90, l’espressione artistica al potere, l’estro misurato in gradazioni e tonalità.
Non propriamente come un passato – per editto anagrafico mai vissuto – in cui l’ultimo uomo era prigioniero dei pali e del grigiore, né tantomeno come oggi, tempo in cui – schiavi del futuro, delle comunicazioni immediate e del concetto di vendibilità – ci siamo fatti truffare dall’eccentricità un po’ posticcia di una divisa fosforescente.
Ricordo di averne spiati tanti, partendo dai nostri ovviamente: Chimenti, Balli, Lorieri, Soviero, Botticella.
Ricordo lo stile – finanche i rituali (il segno della croce, battere le mani sulla traversa, appendersi alla rete) di ognuno di loro (per una particolare forma di autismo conoscevo a memoria tutte le loro altezze): Aldegani, Scarpi, Battistini, Bordon, Bodart, Scalabrelli, Lehmann, Antonioli, Konsel, Taibi, Turci, Acerbis, Cecere. Ognuno così diverso dall’altro, ognuno così solo: come l’altro.
I miei preferiti erano quelli più tarchiati, quelli che sopperivano all’altezza con l’esplosività: Frey e Mazzantini, ad esempio. Autentici fuoriclasse, ampiamente sottovalutati.
Ad accompagnare gli “italiani” tanti altri, ammirati nelle serate intercontinentali, nei rapidi servizi passati dai telegiornali sportivi: vissuti, pertanto, solo attraverso lo schermo e l’immaginazione. Campos su tutti, poi Schmeichel, Chilavert, Songo’o, Burgos, Higuita, Myhre, Kiraly.
In quell’universo ancora non globalizzato, infatti, ogni scuola di estremi difensori differiva dalle altre. C’era il richiamo al pragmatismo dell’accademia mitteleuropea. L’attitudine alla respinta coi pugni dei rampolli del continente nero. Vogliamo parlare del Sudamerica poi, pura libido, con i suoi esponenti tutta sregolatezza: al limite fra malvivenza e follia.
Un ruolo che, nell’inconsapevolezza dell’infanzia, mi pareva il più romantico di tutti: non sbagliavo. Ancor prima delle immersioni nell’oceano della letteratura. Ancora prima di imbattermi nei diamanti intagliati da Eduardo Galeano.
Il destino, coltivato e atteso su una riga di gesso. Quanto di più poetico possa esistere, quanto di più lontano sia stato preservato oggi. Perché le movenze da cyborg di Neuer e Courtois (fuoriclasse anch’essi, per carità), con quel fascino asettico da automi, da rantoli meccanici del progresso, proprio non mi va giù.
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