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Salernitana: la parabola di un amore privatizzato

La Salernitana, un bene espropriato alla massa per saziare l'egocentrismo di pochi

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liberate la salernitana
liberate la salernitana
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Una gamba qua una gamba là
gonfi di vino.
Quattro pensionati mezzo avvelenati
al tavolino.
Li troverai là col tempo che fa:
estate, inverno
a stratracannare, a strameledir…

F. De André

Regna l’idea, da un po’ di tempo a questa parte, che la Salernitana sia una questione elitaria. Un bene accessibile a pochi intimi, un groviglio di circoletti e individualità. Regna, altresì, la convinzione che il motto del vivere cristiano, “porgere l’altra guancia”, sia l’unica metafora utile per sedere al tavolo dei giusti. E invece no, nella gestione della res granata c’è ben poco di pulito: farsi schiaffeggiare è sintomatico di poca autostima nelle proprie azioni. Cercare appiglio nella magnanimità del padrone, riporre fiducia nelle persone sbagliate, per giunta, può rendere il sentiero – professionale e non – un cumulo di cenere.

Anche la fede più sfrenata ha i propri limiti, il sentirsi super partes perché protetti dalla longa manu di qualcuno, alla lontana, espone a cadute rovinose che solo uno sciocco non potrebbe mettere in preventivo.

Esistono democrazie che si tramutano in derive autoritarie, colpa del caudillo? Soprattutto.

Medesima colpa, non propriamente secondaria, andrebbe attribuita a chi, in cambio di un posticino in prima fila, ha barattato la madre (in questo caso, chiaramente, la Salernitana) per una cifra ridicola, uno spasmo di notorietà.

Se ti inoltrerai lungo le calate
dei vecchi moli,
in quell’aria spessa, carica di sale, gonfia di odori,
lì ci troverai i ladri, gli assassini e il tipo strano
quello che ha venduto per tremila lire
sua madre a un nano.

E così si svende la libertà di essere sé stessi, ci si trova in balia del nuovo potere costituito. Apparteniamo – misteri della psicoanalisi – alla città che avrebbe ampliato gli studi di Pavlov sul riflesso condizionato: il suono del campanello magari non arma la voracità del cane ma ne rende più fluido l’inchiostro.

Aprire le braccia, le gambe e le ali al cospetto di chi, in tutta risposta, ha spalancato qualche porticina ad alcuni e ha tranciato i cavi dei microfoni – e del contraddittorio – ad altri non è più consentito.

Altrettanto ridicolo stilare elenchi di presunta meritocrazia, una partita di calcio – per il suo appeal popolare che nasce dal basso – non è un party esclusivo. La lamentela non è una questione di palato fino, qui nessuno pretende la luna. Tutt’altro.

La nostra Storia, troppo spesso, si è cibata di fanghiglia e crateri: apparteniamo a un popolo che si è forgiato nella polvere. La nostra Storia è costellata di stradine secondarie, baraonde di provincia. L’Olimpo della massima serie, del resto, l’abbiamo scalato appena due volte in 101 anni.

La nostra Storia è un vagare senza meta fra i ricordi, nutrendoci di speranze. Se le speranze crollano, però, anche i ricordi diventano macigni troppo ingombranti da trascinare.

Qui si pretende poco e nulla, sicuramente il minimo sindacale: linearità, trasparenza e l’allontanamento di chi ha trasformato la passione in arrivismo. Il torbido é nauseante e l’indifferenza – meccanismo di autodifesa della prima ora – si è tramutata in disgusto.

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Nato nel '90. Due passioni governano i moti del cuore e, molto spesso, confluiscono l'una nell'altra: Salernitana e poesia.

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