Regna l’idea, da un po’ di tempo a questa parte, che la Salernitana sia una questione elitaria. Un bene accessibile a pochi intimi, un groviglio di circoletti e individualità. Regna, altresì, la convinzione che il motto del vivere cristiano, “porgere l’altra guancia”, sia l’unica metafora utile per sedere al tavolo dei giusti. E invece no, nella gestione della res granata c’è ben poco di pulito: farsi schiaffeggiare è sintomatico di poca autostima nelle proprie azioni. Cercare appiglio nella magnanimità del padrone, riporre fiducia nelle persone sbagliate, per giunta, può rendere il sentiero – professionale e non – un cumulo di cenere.
Anche la fede più sfrenata ha i propri limiti, il sentirsi super partes perché protetti dalla longa manu di qualcuno, alla lontana, espone a cadute rovinose che solo uno sciocco non potrebbe mettere in preventivo.
Esistono democrazie che si tramutano in derive autoritarie, colpa del caudillo? Soprattutto.
Medesima colpa, non propriamente secondaria, andrebbe attribuita a chi, in cambio di un posticino in prima fila, ha barattato la madre (in questo caso, chiaramente, la Salernitana) per una cifra ridicola, uno spasmo di notorietà.
E così si svende la libertà di essere sé stessi, ci si trova in balia del nuovo potere costituito. Apparteniamo – misteri della psicoanalisi – alla città che avrebbe ampliato gli studi di Pavlov sul riflesso condizionato: il suono del campanello magari non arma la voracità del cane ma ne rende più fluido l’inchiostro.
Aprire le braccia, le gambe e le ali al cospetto di chi, in tutta risposta, ha spalancato qualche porticina ad alcuni e ha tranciato i cavi dei microfoni – e del contraddittorio – ad altri non è più consentito.
Altrettanto ridicolo stilare elenchi di presunta meritocrazia, una partita di calcio – per il suo appeal popolare che nasce dal basso – non è un party esclusivo. La lamentela non è una questione di palato fino, qui nessuno pretende la luna. Tutt’altro.
La nostra Storia, troppo spesso, si è cibata di fanghiglia e crateri: apparteniamo a un popolo che si è forgiato nella polvere. La nostra Storia è costellata di stradine secondarie, baraonde di provincia. L’Olimpo della massima serie, del resto, l’abbiamo scalato appena due volte in 101 anni.
La nostra Storia è un vagare senza meta fra i ricordi, nutrendoci di speranze. Se le speranze crollano, però, anche i ricordi diventano macigni troppo ingombranti da trascinare.
Qui si pretende poco e nulla, sicuramente il minimo sindacale: linearità, trasparenza e l’allontanamento di chi ha trasformato la passione in arrivismo. Il torbido é nauseante e l’indifferenza – meccanismo di autodifesa della prima ora – si è tramutata in disgusto.
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