La calle del diez, cattiva per antonomasia.
Costellata di vizi, eccessi e debolezze: proprio per questo, umana.
Abbiamo perso quel niño che, nell’anno in cui il pianeta dissodava il campo per le sue rivoluzioni, scrisse la poesia più precoce sullo sterrato de “Las siete canchitas“.
Diego non è più, ma quanto è stato. Gioia e rivalsa, risata limpida e mani fra i capelli. Un uragano albiceleste, dominatore degli ultimi cinquanta metri, dispensatore di emicranie.
El Pibe, icona dell’America Latina, baluardo antimperialista, carismatico come il Che, inarrestabile.
Fotogrammi di un’esistenza, quelle circostanze che si coagulano nei due versanti di un verbo che è, allo stesso tempo, speranza e distruzione: tirare.
Maradona non ha mai chiesto di essere preso ad esempio, in effetti non ha mai chiesto nulla. Ha semplicemente donato velleità di riscatto ai suoi popoli, accomunati dalla stessa bandiera: un sole che solca tavole bianche e celesti (o azzurre, ma questo è solo un vizio della percezione).
Visionarietà e arte, l’istinto che si tramuta in rapida pennellata, un fremito lungo 11 tocchi seminò i britannici – viandanti assetati nella torrida controra dell’Azteca – e, idealmente, spense il ghigno della Thatcher.
Lo stravolgimento di ogni canone estetico: chi l’ha detto che un Dio debba essere un’entità distante dal suo popolo, debba avere i capelli color del grano, la predominanza fisica sul circostante.
Ho visto un Dio tarchiato, scaltro, un hijo de puta come tanti e, per questo, venerato con maggior trasporto e alcun timore reverenziale.
Diego Armando Maradona, teorema di trasversalità, capace di unire nel giudizio – fosse anche solo un “ooh” di meraviglia – strati sociali fra loro inconciliabili: il mendicante e il banchiere, la prostituta e la suora, il Principe Carlo e Fidel, il diavolo e Gesù Cristo.