La Salernitana, per l’ennesima volta, si trova a far di conto con le stagioni. Quella contro il Cittadella è una sfida con la valenza di un termometro. Le ambizioni misurate in decimi, la febbre in questo caso è qualcosa di richiesto, quasi sperato.
Le dosi, intrinseche alla riuscita di un sogno, sono tutte sul tavolo verde: sta all’11 di Castori costituirsi confine di meraviglia fra la scalata e lo smottamento. Nulla da dire sull’impegno profuso, almeno finora, da chi indossa l’ippocampo sul petto. I limiti dell’organico sono alla mercé di tutti, anche e soprattutto di coloro che, turandosi il naso, ingurgitano la solita minestra senza fantasia. Chissà cosa accadrà, domani.
Il domani, ovviamente, non è inteso nel senso stretto del termine: non rappresenta lo scavallare della mezzanotte. Il domani è un’entità fluida, estrema sintesi di quanto le attese siano state in realtà violentate. L’occasione di confermare il primato, in altri tempi, avrebbe armato i peana alla vittoria di una città intera.
Latitano, ancora una volta (ma le mie parole rappresentano poco altro che un ritornello), le rassicurazioni sulla genuinità del progetto. Cosa vuol fare la Salernitana da grande? Restare ferma al palo dei “poi si vedrà” o confermarsi cartolina agonizzante di un distacco misurato in dichiarazioni fotocopia di sé stesse?
Chiaro che, nonostante le continue spinte della piazza e di parte della stampa, la voce del padrone riscalda sempre la solita – offensiva per i pensatori critici – omelia.
L’esegesi della multiproprietà, stigmatizzata come un falso problema. Anche un falso problema, però, necessita di chiarimenti. Quando, un problema, può definirsi falso? Quando non ci sono tesi di validità a confermarlo, ecco.
Allora cosa rappresentano le normative federali per chi si trincera dietro la sacra sindone del procrastinare? Carta straccia, antipatiche variabili del cammino, mine anticarro piazzate sul sentiero di una corazzata costruita di stenti.
Il rimandare non rappresenta una scelta saggia. A meno che non sia sintomatico di un voler prendere tempo in funzione di qualcosa che potrebbe accadere. Qualcosa che determini la comparsa della parola “Fin” agli strascichi del film più indigesto. Una trama che, in perfetta armonia con i canoni della Novelle Vague, non coincide con la sua sceneggiatura, né con la sua scenografia, né tantomeno con i suoi attori, bensì con chi l’ha girato: improvvisato al limite estremo, senza colpi di scena e coi finali tristemente uguali.
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