Mi rendo conto, con quello che è successo ieri – lo dico col mio solito sorriso timido – non dovrei parlare proprio io.
Però pure voi avete sbagliato i tempi. Di me, dovevate innamorarvi prima del 1982.
O almeno, avrebbero dovuto farlo i romantici, quelli che il calcio di provincia. Avreste dovuto farlo quando le strisce erano quelle rosse, vicino alle bianche.
Io vengo da lì, sbucavo dal nulla. Senza il fisico da granatiere, senza più menischi nelle ginocchia.
Ed il mio nome comune. Mi chiamo come tanti, come un attore, come un cartone animato di Bozzetto che nessuno ricorda più.
Col nome che avevo, la faccia che portavo, è stato facile diventare vostro amico, fratello, figlio, fidanzato.
Anche se sbucavo dal nulla. Marchio di fabbrica, lo facevo pure sul campo.
Ero uno di quelli che faceva finire in gloria tutti i salmi.
Quelle palle crossate al centro che sembrano figlie di nessuno, che i cronisti già annotano sul taccuino al capitolo “azioni pericolose”.
Immaginando il calcio dalla bandierina, la rimessa dal fondo.
Dal nulla, invece, sbucavo io.
E giorno o notte che fosse, era come se si accendesse un occhio di bue.
A illuminare me, la palla, prima che la sbattessi dentro.
Dai giorni della mia recita migliore derivò il nome d’arte, quel “Pablito”. Mi piaceva, era figlio di un’epoca ancora ingenua che dava valore all’esotico.
Ma credo non renda giustizia.
Io, ragazzo italiano, calciatore tipico e centravanti italiano, d’Italia ero simbolo, con la semplicità del nome che diventava brand.
Facile da dire, impossibile da storpiare, era «Paolo Rossi» che cronisti e tifosi nel mondo ripetevano, in tutte le lingue.
Pure in Brasile, dove divenni sinonimo di incubo.
Comune il nome, comune non fu la mia storia calcistica.
Storia. Un lampo. Professionista a diciannove, ritirato a trentuno. Due anni di squalifica, se ci pensate vi ho cambiato la vita in soli dieci anni.
In un lampo. Oltre quel che già portate sulla pelle, la prima volta dei due miliardi, la prima volta di uno sponsor sulla maglia.
E sì, pure la tombola a Vietri sul Mare.
Credo, il dolore più grande per voi, comunque sia andata.
La faccia mia non era quella di Albertosi o Giordano, credo vi abbia fatto male di più. Comunque sia andata, dicevo, fui un fesso.
L’ho pagata.
Sbucavo dal nulla, nel nulla tornai, da lì riapparsi.
Feci a voi quel che feci a me stesso. Morire per rinascere.
Né tombola, né cabala, i numeri erano quelli buoni, adesso.
La litania del 5. Minuto 5, 25 e 75, i gol al Brasile.
Il più bello dei countdown, quel 3-2-1. Al Brasile, alla Polonia, alla Germania.
Sbucai ancora dal nulla, quella notte. A vincere la volata su una famelica orda azzurra di compagni che sul quel pallone si era avventato.
È andata così. E, andato, adesso, sono io.
Cosa vi lascio? Tempo.
Vi faccio risparmiare del tempo.
Prendi quello che sta scrivendo il dettato, ad esempio.
Per raccontarvi di quei giorni sarebbe costretto a dilungarsi.
Provocando in chi ascolta quei cortesi cenni del capo che significano: «Stringi, mi sto annoiando».
Avrebbe difficoltà, forse, a trovare le parole.
Dovrebbe parlarvi di un cuore che mai più batterà così bene e forte.
Di costumi bagnati legati ai bermuda col laccetto, di sabbia nei piedi.
Di ITALIAITALIAITALIA urlato dai balconi.
Di tempi unici e comuni.
Del suo tempo comune ed irripetibile, che è pure il vostro.
Ci mettereste tanto a dirlo, ed invece basto io, vi servono solo due parole.
Quelle del mio nome comune.
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