Primavera Romana del Sessantasei, bella e profumata. Si mormora di brogli alle elezioni universitarie: è un attimo e scoppiano tafferugli. Primula Goliardica, La Sapienza, Lettere e Filosofia: parole, ricordi, storia.
Ne fa le spese uno studente: ha solo 19 anni e sospira Socialismo. Un volo di cinque metri poi il coma, poi la morte. Refolo dell’uragano del 1968 e prodromo di piazza Fontana: chiunque sia stato, nasce quel giorno l’odio politico che dominerà la vita pubblica italiana. Gli Anni di Piombo.
Quel ragazzo portava un nome banalissimo, che tuttavia si sarebbe attagliato ad un eroe immortale. E quando vent’anni dopo un Poeta Romano cantò del primo, alzi la mano chi non pensò all’eroe.
Quel ragazzo si chiamava Paolo Rossi.
Era l’anno dei Mondiali, quelli dell’82: Maradona era un ragazzo come noi. Ma era già il più forte di tutti, sebbene nemmeno immaginassimo cosa avrebbe regalato ad occhi e cuore. Gioca il suo primo, nelle fila dei Campioni in carica e penseresti che già basta. Macchè.
Junior, Falcao, Socrates, Cerezo. Zico. Nemmeno al Caribe le collane hanno tante perle una via l’altra. Ispirato alla Democracia Corinthiana e partorito da Calliope, è probabilmente il più denso concentrato di classe della Storia della Palla.
Le coste della Spagna quell’estate sono battute dai venti di tre conflitti: Guerra Fredda tutt’intorno, poi le Malvinas e, da giugno, l’attacco israeliano al Libano. Nulla, paragonato al clima che accompagnò l’Italia al Mundial. Italia triste, in simbiosi con un popolo eternamente pessimista, squarciato dal terrorismo e senza rivincite all’orizzonte. La squadra ha passato il gironcino per miracolo e Paolo Rossi, inspiegabilmente preferito alla vigilia a Pruzzo, non solo non ha segnato: ha fatto proprio schifo. Fase due: Brasile e Argentina. Addìo.
Quello che successe nelle successive due settimane è complicato da comprendere e francamente impossibile da spiegare. Raccontiamo oggi l’estate del sogno, della rinascita dell’Italian Style. Della voce di Battiato dalle finestre spalancate. Di un Mondiale epico, irripetibile, che prese a schiaffi il Senso di Patria e lo destò, restituendolo al centro di gravità permanente. L’estate dopo la quale l’Italia e gli Italiani non furono più gli stessi.
Se la vita nostra è fatalmente un poema, confessiamocelo: abbiamo un disperato bisogno dell’eroe di cui innamorarci. E che male c’è?
Quell’estate assurse ad eroe l’antieroe.
Con lo stesso nome del ragazzo del Sessantasei.
Col nome ch’è paradigma di normalità. Normalità: in questo mondo, in questo di fenomeni la vera trasgressione è quella. Come fece Paolo Rossi ad uscire dalle sabbie mobili e spiccare il volo senza ali per cui il nostro dopoguerra ha un senso lo sanno solo gli Dèi. Un bel giorno, Eupalla lo prende per il bavero e gli sussurra due paroline. È successo al Sarrià, suppongo. Laddove i bistrattati di Bearzot ribaltano il senso comune e dal nulla trovano la prestazione contro i Campioni in Carica, contro il Più Forte di Sempre. Battendoli. Non segna ma è lì, l’epifania dell’antieroe.
Gli altri conducono una cosa strana che ci divertiamo a giudicare: si chiama vita. Quella di Paolo Rossi inciampa due anni prima, nel pieno dell’esplosione di una carriera folgorante. Il Totonero è la pagina più buia della Storia Italiana del Gioco. Molto peggio di Calciopoli, chè la purezza degli Anni Ottanta nel 2006 ce la sognavamo. Il ragazzo è stato squalificato, s’è intristito, è tornato tutto ingobbito ma Bearzot ha visto la luce dei pastorelli a Fatima: si becca tutti gli sputi possibili e sceglie lui. Comunque. Siamo ancora al Sarrià, è il 5 di luglio.
Avessimo segnato cinque gol, l’Italia ne avrebbe fatti sei
Parole e musica di un poeta brasiliano col nome lunghissimo che per comodità chiameremo Zico. Secondo il quale quel giorno muore il calcio. Quando una stella si spegne un’altra, nella galassia, sta nascendo: al minuto cinque Rossi. Subito Socrates ma poi ancora Rossi. Ci riprende Falcao ma dannazione, definitivamente Rossi.
Rossi, Rossi, Rossi. È quello il giorno in cui vinciamo il Mondiale, la Tristezza, la Depressione degli anni e del piombo. Quel giorno ricolloca l’Italia sul Mappamondo, mostrando in vetrina le millenarie eccellenze per le quali, cavolaccio, trovatemi chi è meglio di noi.
Quel che succederà poi lo sapete tutti. Urleremo Rossi altre tre volte e sarà la notte di Madrid. La notte in cui il Presidente straccerà braccia all’aria qualsiasi protocollo. In cui Tardelli si fotterà le tonsille. In cui Zoff e Scirea proseguiranno il digiuno d’emozioni concedendosi peraltro un ottimo vino, anteponendo il calice alla Coppa. La notte dei clacson e delle lacrime, delle lacrime e della Rinascita.
Poscritto.
Il giorno della finale coincide con la tappa torinese del tour dei Rolling Stones. Per comprendere la portata degli eventi, sappiate che il concerto – degli Stones!!! – fu anticipato alle tre del pomeriggio.
Prima dell’ultima canzone, Mick Jagger si spoglia – faccia scavata ed ossa in rilievo – e tira fuori dalle radici dei nervi tesi l’urlo che scatena definitivamente i Sessantamila del Comunale.
Tranquilli, stasera vincete tre a uno
Lisergica profezia, del resto la Verità è blasfemia in fondo all’acido.
Poi parte il basso, rulla la batteria, le luci si abbassano. Quando riappare, Mick è già immerso in Satisfaction con indosso la maglia azzurra del Mundial.
La Numero Venti.
Eternamente Pablito, over and over again.
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