Gli anni non aspettano: il battello granata va, orgoglioso, a prescindere dalle vele rammendate alla bell’e meglio.
La Storia è un battello ma, più che un battello, è un fiume (o un canale, fate voi): denso di catrame, fuliggine e sangue.
Cronache dalla preistoria, epoche in cui il distanziamento era la linea gialla che separa la banchina da un locomotore in arrivo. La Salerno che cede di schianto alla controra dei Cent’anni è un’onda, possente. Lo sfogo genuino, poi: giornate di poesia. Ubriachi senza vino, nutrendo una sacralità profana, portando in processione le radici.
La Salernitanità, presente e futura, non è merce di scambio, né figurina da incollare sull’album dei “potrei“.
Non lo arresti il fiume dell’aurora.
Salerno desolata ma presente, fra la cenere, in quel cortile: all’ombra di un playout non playout. Cartoline dalla laguna: vento fermo, sofferenze di una salvezza non salvezza.
Tutto, in realtà, si presta agli scenari dell’illusione. La quarta parete, il proscenio del non detto, preservata da un battaglione di prosivendole, dai rantoli di un vento che, pur facendo oscillare i lampadari del razionale, rende ciechi.
Nel mentre, il tumulto: la semina capitolina dà i suoi frutti. La malerba della discordia si incunea nel campo delle uguaglianze imponderabili: il simile contro il simile.
Tutto è il resto di tutto, così viscerale e profondo, ma tradotto nei termini di una fredda dicotomia: repubblicani contro democratici, Montecchi e Capuleti, Contras y Sandinistas, gufi e collusi.
Le offese, distillate fra un brindisi all’annata e le frequenze dell’impertinenza che rimarcano – “Io caccio i soldi, perciò dovete stare zitti” – giustificando la voce del padrone. Le prese di posizione si inseguono, sotto l’egida di Zuckerberg, poco più che armi di distrazione di massa. Costruendo opinioni che non si curano di raggiungere orecchie, bensì specchi di vanagloria in cui rimirarsi.
Le rivoluzioni sono lente, profonde: cartine al tornasole di ogni stanchezza, ogni boccone mandato giù turandosi il naso. Se a sospingere il verbo, per ora, c’è marea di carta velina, un giorno saranno i temporali della Salernitanità a render carta straccia ogni imbarcazione di fortuna.
Salerno non è solo un lento dondolio di moli, è stanca ma viva. Pretende di coltivare – passaporto ematico di ogni tifoso – gli unici semi che attecchiscono anche nelle difficoltà: speranza e sogni.
La Multiproprietà è sentimento claustrofobico che uccide i sogni. Siamo in cerca – nel solco dell’insonnia, dei ricordi che, con violenza, ci hanno forgiato – di gioie veritiere. Fra ricorsi, arrampicate al palazzo, ombre, fanghi, depistaggi e incidenti di percorso la passione tende a sfumare. La pazienza è una condanna che, nel campo del procrastinabile, si sfilaccia irrimediabilmente.
Gioie veritiere, appunto. Ciò che, tutto sommato, giunge dal gruppo di Castori. Se il calcio non è una scienza esatta, l’aritmetica sì. Ciò che perviene, al di là di ogni limite (scientifiche carenze di un organico, imputabili unicamente a chi ha il compito di completare la rosa), è lo spirito di sacrificio, l’attaccamento, il controbattere colpo su colpo. La determinazione della squadra, ad ora, funge da collante, ci tiene ancorati a quella zolla d’ossigeno che pretendiamo venga onorata: il terreno di gioco, la maglia.
A guidare la carovana siamo noi ma, presentarsi al girone di ritorno senza rinforzi, è come affrontare il Gran Canyon con il fucile ad acqua: i pellerossa, nel mentre, ci fiutano dalla collina. Non fornire i giusti innesti a questo gruppo è come presentarsi a Lepanto coi braccioli, come affidarsi a una tuta in acetato (di seconda mano, tra l’altro) per stupire al ballo delle debuttanti.
A poco – quasi a nulla – serve armarsi di bianchetto per rendere più agevole il terreno di chi, in silenzio, continua a minare la credibilità della Salernitana e della sua gente.
Non era solo un aereo, no. Ridicolo porre la vicenda sui termini della mera logistica. Non è solo un mezzo di trasporto, è mancanza di rispetto. Così come lo zucchero, l’acqua, i proclami, i palloni, la Serie Z, tutti i liquami di un Te Deum che scorre sul taccuino asservito.
Tutto è tessera, filamento di un canovaccio che ci rende schiavi di una realtà parallela. Nessuno venga a chiedere di barattare l’orgoglio, godersi un primato acefalo, sopportando in silenzio la perdita dell’identità.
Autodeterminazione, autodeterminarsi: farsi artefici delle proprie aspirazioni, sentimento trasversale che unisce chi è stanco di sentirsi subalterno. Non è corretto articolare in capricci i segnali dell’imbrutimento. Ci hanno reso brutta copia di ciò che vorremmo e potremmo essere.
Tutto ciò che serve è un cuore senza legacci che batta all’unisono. Un cuore su cui non penda il fendente dei “però”, “in caso di”, “si vedrà”. Il montaggio analitico a cui siamo abituati, il taglio, lo stacco: sono sintomatici di una volontà di eludere ogni aspettativa.
Tutto quel che a noi, figli di tramonti e salsedine, non sta più bene.
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