Non è la parola sibilata a stento – dal soffio di vento che fa fremere l’erba o dalle nostre bocche impastate – mentre osserviamo il terreno di gioco dal fondo dell’ennesima bionda trangugiata nella Sud.
No, non è nemmeno l’imprecazione scagliata sul rettangolo verde. Magari dopo che una conclusione – cartolina delle intenzioni di un numero 9 qualsiasi – si infrange al largo dei legni, lassù, su quelle barricate di cemento da cui, più che le aquile (rapaci che ad oggi osserviamo con estremo disgusto), osiamo noi.
σύμβολον proviene dal greco, è una parola composta che letteralmente significa “mettere insieme”. Potrebbe risultarvi più familiare, però, se utilizzassimo il corrispondente latino: symbolus.
Oltre duemila anni di storia – variabili della linguistica a parte – uniscono l’intento di chi, pronunciando quella successione di lettere, rende chiari due concetti fondamentali: unione e appartenenza.
Parliamo di simboli, appunto. Ogni città – ogni comunità di individui forgiatasi dalle proprie radici- detiene i propri.
Salerno non fa eccezione. Ha il mare (più che un simbolo, in questo caso, una vocazione), il Castello di Arechi, i Giardini della Minerva, la Scuola Medica Salernitana (antesignana delle università moderne in cui le donne, le “Mulieres Salernitanae”, ricoprivano ruoli fondamentali, nonostante la società del tempo fosse dominata da una visione di genere che definire patriarcale risulta riduttivo), la cupola dell’Annunziata, il campanile del Duomo e il profilo delle manifatture cotoniere che, rappresentando il fervore industriale della Salerno preunitaria (ben 12mila operai impiegati, il triplo rispetto alla Torino del tempo), valsero al nostro lembo di terra l’appellativo di piccola Manchester.
Nel novero dei simboli spicca, fra tutti, la rappresentazione di un’entità che si nutre di sabbia e correnti: il cavalluccio marino, emblema della nostra Salernitana.
La genesi del nostro stemma la dobbiamo alla creatività del Maestro Gabriele D’Alma, anch’egli ascrivibile ai simboli della nostra terra.
Era il 1949, l’Italia meridionale (ma non solo) era un cumulo di macerie e il tempo – scandito dai treni dell’amicizia (rigorosamente a stelle e strisce), dalla longa manu della DC e dalle spire del Patto Atlantico – scorreva veloce, sofferto ma spensierato.
La Salernitana, all’epoca una splendida trentenne, covava le velleità di imprimere dei tratti distintivi al proprio universo calcistico. Il Maestro, esprimendo il sano vizio di annegare le malinconie nella salsedine, ingannava la lentezza del pomeriggio passeggiando nei pressi dell’arenile di Santa Teresa. L’illuminazione è un lampo, un fremito, cattura l’immaginazione e, se fortunata, si proietta fra le trame della Storia. Le reti stanche dei pescatori, scenari quotidiani di un popolo assuefatto alla brezza marina, ospitavano un caparbio esserino acquatico che, dimenandosi, boccheggiava rivolto alle onde.
La rivelazione, immediata, rese libero il campo da ogni dubbio: l’ippocampo rappresentava l’entità adatta a tradurre l’indole di un popolo desideroso di riscatto. Sarà il cavalluccio marino, dunque, a campeggiare sulle divise della prima squadra cittadina. Un simbolo, figlio del dopoguerra, rinnovatosi negli anni.
Dapprima stilizzato e a figura intera, poi reso immortale – nel 1986 – dal tratto di Jack Lever, un grafico texano che, seguendo un input dirigenziale teso a commercializzare il brand, caricò di significato lo stemma dei granata: le onde del mare, i cinque bastioni (substrato delle dominazioni longobarde e normanne) e il follaro (moneta del principato). La versione attuale muove i suoi primi passi alle soglie del nuovo millennio, dai tratti più essenziali ma non meno caratteristici, è delimitata da uno scudo e – a prescindere dal quadriennio 2005-06/2008-09 (contrassegnato dall’odiata “palla di pezza”) e dalla stagione 2011-12 (determinata dal gonfalone comunale) – si staglia sull’armatura di stoffa che accompagna i nostri colori per ogni rotta geografica.
La Salernitana, in conclusione, è ciò che si tramanda e, di conseguenza, ci appartiene. Lo è sempre stata e lo sarà sempre: volubile come le sue maree, dai tratti femminili, popolani e fieri, indomabile, umile e testarda.
Parole, queste, di Alfonso Gatto: sussulto vivido ed ermetico del nostro lunghissimo ‘900.
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