Il calendario impone date che, note a tutti, si mescolano con le convenzioni. Un ciclico rievocare traguardi, ricordi, sofferenze, felicità, disastri.
Si tratta, tecnicamente, dei landmarks della storia, capisaldi dell’immaginario collettivo. Conferiscono all’uomo quell’illusione antichissima di poter governare il tempo, cristallizzandone le emozioni.
Fra tante: il 25 aprile, il 2 giugno, l’11 settembre, il 12 dicembre, il 27 gennaio. Nel mezzo tutti gli altri giorni: universalmente anonimi ma, per alcuni, carichi di contenuti.
Quello del 1945 vide l’ingresso dei sovietici ad Auschwitz. Ad accoglierli cumuli di cadaveri, cartoline della deportazione. Il mondo intero vide sventolarsi, fra aorta e coscienza, le diapositive del terrore. Da allora il ricordo, veicolato di testimonianza in testimonianza, rappresenta un monito: mai più.
Confrontato al resto è, indubbiamente, il meno importante. Torniamo all’epoca del doppio prezzo affisso sugli scaffali. Ci si abitua, sull’onda lunga di Maastricht, all’approccio con la moneta unica europea. Il terrorismo 2.0, appena 4 mesi prima, ha messo alla prova i nervi degli sbandieratori della democrazia nel mondo. Il cuore degli Stati Uniti ha tremato. Il World Trade Center è il volto di una nuova guerra, la politica delle taglie prende il sopravvento: l’uomo più ricercato è Osama Bin Laden.
L’universo del tifo non ha mai badato al fioretto, né tantomeno ha mai camminato di pari passo con i temi del politicamente corretto. Lo sanno bene i reggiani che, dopo un raid americano a Tripoli, inneggiarono a Reagan con uno striscione:
Lo sappiamo bene noi che intonammo a più riprese:
Napoli – Salernitana, comunque, non è una partita come le altre, checché ne voglia dire la noblesse oblige dei partenopei. Il San Paolo è un calderone e, quel giorno, si trasforma nella tana di Lucifero. 63mila presenti, ben al di sopra della media stagionale, sono l’incontrovertibile prova di quanto per gli azzurri – atteggiamento spocchioso a parte – il match fra cugini sia sentito. Poco più che 5000 le anime granata – dati ufficiali, facilmente aggirabili, alla mano – nell’impianto di Fuorigrotta.
Ambizioni differenti armano le intenzioni delle due squadre: da un lato l’armata di Luigi De Canio, dall’altro i ragazzi terribili di Zdenek Zeman.
Per i napoletani, in palio, c’è una corposa fetta di massima serie, per noi salernitani la voglia di dare un calcio all’arroganza degli odiati dirimpettai.
L’urna designa un classe ’67, si tratta del Sig. Rosetti della sezione di Torino – internazionale da una manciata di giorni – che ha l’onere di arbitrare il derby campano. La gara, per antonomasia, più difficile da gestire.
Moduli speculari, una sfida torrida, a dominare sono le idee. Gli azzurri partono forte, creano più di un grattacapo alla nostra retroguardia che respinge, a fatica, le incursioni di Moriero, Sesa e Graffiedi. Sui piedi dei granata appena un paio di occasioni e nient’altro, troppo poco per scalfire il feudo di Franco Mancini.
La partita scivola via, coriacea e sofferta, fino al 63’ della ripresa.
Calcio di punizione dai 25 metri, Sesa pesca l’incrocio, Botticella si supera e devia in corner. Dagli sviluppi del calcio d’angolo, però, l’uscita incerta del nostro numero 1 pesca Jankulovski defilato che, senza pensarci su, calcia al centro trovando la spaccata vincente di Villa. Il San Paolo, in festa, si dirige ad ampie falcate sulla banchina del treno promozione.
L’incontro prosegue e il cronometro imprime una brusca accelerata alla sua corsa, i granata non riescono a trovare spiragli.
La sconfitta sembra l’unica strada accessibile, volute di fumo accarezzano il profilo della nostra panchina, il boemo è calmo come un capo indiano. Un capo indiano non si dà mai per vinto. Al minuto 85’, infrangendosi sulla battigia dell’ultima spiagga, richiama a sé Fusco e cala un asso che – fino a quel momento – vestiva le disattese del due di picche.
Il destino ha un nome, un cognome, un numero, una provenienza. Leandro Lazzaro indossa la 9 e proviene dalla periferia più a sud della terra: l’Argentina. Pochi gettoni e nemmeno un acuto, il classico tango danzato al tramonto, proiettato verso l’oblio.
La lavagnetta luminosa indica i minuti di recupero, saranno appena 3.
Il popolo azzurro, dicevamo, è in festa. Forse anche troppo. Tre tifosi decidono di entrare nella storia e, anticipando il triplice fischio, si slacciano dalle gradinate per correre incontro ai propri calciatori.
Il Sig. Rosetti, regolamento alla mano, concede un ulteriore giro di lancetta.
Minuto 94’, calcio piazzato dalla sinistra, anche Mimmo Botticella porta i suoi centimetri in area. Vignaroli non si affida al caotico abbraccio della disperazione e – lasciando tutti di stucco – non crossa: si appoggia ad un compagno.
Quel compagno, ironia della sorte, è un virgulto del vivaio azzurro che ha trovato fortuna 54 km più a sud del capoluogo. É Giorgino Di Vicino, infatti, che riceve e, di slancio, supera il diretto marcatore. Poi calcia.
Il sinistro è violentissimo e, in un sordo rintocco, si stampa sul palo. Mancini, forse, può sospirare sollievo.
Il destino, però, è in agguato al centro dell’area. Una macchia bianca – col 9 granata sul dorso e il nome di colui che venne riportato in vita da Nostro Signore – addomestica la sfera e, in maniera neanche troppo pulita, la spedisce in fondo al sacco.
Lo sgomento, l’incredulità, la gioia. Il cuore, in quel frammento di tempo, cavalca le montagne russe più alte del mondo.
Esistono fermi immagine che valgono più di mille parole e questo, per chi ama l’Ippocampo, merita il Pulitzer alla fotografia.
Il resto è tripudio di un popolo che, senza pietà, si ciba dell’altrui dolore.
Perfino il volto di Zeman, impassibile per conformazione e struttura morale, si dipinge di un ghigno beffardo incassando l’abbraccio dei suoi 11 discepoli.
La Salernitana, con la retromarcia inserita, risale l’abisso ed esplode, volteggiando fra le macerie del San Paolo.
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