"Il poeta è un fingitore. Finge così completamente che arriva a fingere che è dolore il dolore che davvero sente”.
Distanze insormontabili fra poeta e lettore, Fernando Pessoa con la sua Autopsicografia – partorita il primo aprile del ’31 – pone al centro dei suoi versi, oltre al tema dell’incomunicabilità, un equivoco di natura linguistica.
Fingere, infatti, proviene dal latino – fingo fingis, finxi, fictum, fingĕre – e significa, letteralmente, costruire. Forgiare.
Per render giustizia alla ricerca del termine e confermare la veridicità della scelta etimologica, occorre tornare all’apogeo della Belle époque: periodo di altissimo splendore che intercorre fra i rantoli del XIX secolo ed i primi, mostruosi, vagiti del XX.
I fingidores erano artigiani specializzati nella decorazione delle facciate dei palazzi nobiliari. Mentre gli interni si componevano di affreschi – a sfondo bucolico e di caccia – e statue in gesso, gli esterni avevano bisogno di materiali meno pregiati – una malta di cemento e sabbia fine – ma più resistenti, per fronteggiare il frequente scrosciare vento e temporali dell’Atlantico.
Il mestiere del fingidor eternato dal poeta, irrimediabilmente, cominciò a scomparire. Questo, fondamentalmente, per due cause ben precise: il prezzo sempre più elevato di quel tipo di decorazioni, la sterzata corporativista che Salazar impresse al sistema produttivo lusitano.
O poeta è um fingidor, in quanto edifica un dolore, talmente profondo, che tende a sdoppiarsi. Ne prova due allo stesso tempo: il primo invade la cassa toracica, il secondo impregna la cellulosa.
L’incomunicabilità, poi, dirotta il sentimento del lettore. L’interpretazione, motore di chi si approccia a un testo poetico, arriva a far sì che nasca un terzo, ed ultimo, dolore: quello interpretato, appunto.
Chi legge tende a svincolarsi dal richiamo iniziale del componimento. Tutto ciò provoca un senso di vivissimo spaesamento, non tanto in chi usufruisce dei versi bensì in colui che quei versi li ha generati.
Questo – insieme a inquietudine e stanchezza di esistere – è uno dei motivi per cui Pessoa, durante il suo percorso artistico, ha inteso rifugiarsi in una selva di eteronimi, un’affollata solitudine: Bernardo Soares, Ricardo Reis, Alvaro De Campos, Alberto Caeiro. Tanti volti per una sola penna, tanti tramonti per un’unica collina.
Ma arriviamo a noi: cosa unisce nell’intenzione il poeta, l’editorialista, il pazzo, il tifoso?
Sensazioni ambigue, colpevolezza nei confronti di una passione che, mai come in questo tempo grigio, è pergamena sbiadita di ciò che poteva essere e che, oggi, non è.
Ma, a far da padrona, è l’incapacità di comunicare il dolore provocato dall’assenza. Il dolore appartiene alla sfera del vivere soggettivo: si tende ad accentuare il proprio sminuendo quello altrui.
In questo caso, probabilmente, nessuno più di Fabrizio De André in “Disamistade” è riuscito a rendere meglio il concetto:
Cosa lega, inoltre, l’editorialista, il pazzo, il poeta, il tifoso?
La rabbia, incontrollata. Il naufragio totale di ogni ambizione, il disprezzo per i propri carcerieri.
Rabbia che nasce da motivazioni di ampia natura e, quasi sempre, costruisce le fondamenta di una turris eburnea in cui celarsi, al netto di solitudini e malinconie.
Sono già dimenticate le stagioni, le notti insonni, le traversate a tutto campo. Cos’è oggi la Salernitana, se non uno scherzo della metafisica.
Questo amore, un vuoto a rendere. Mai come ora, profanati nell’intimo, ci attardiamo a contare i biglietti, le diapositive di un tempo passato che, sgualcite, riposano sul fondo dei cassetti ed altro non sono. Semplici diapositive, testimonianze del viaggio.
C’era un tempo, tornerà senz’altro, in cui bastavano suole per andare. Oggi nulla è più possibile, finché il nostro sogno resterà sogno di seconda mano.
Fu così che Fernando Pessoa, il 30 novembre 1935, prima di abbandonarsi allo sciabordio della notte, sussurrò:
“Dê-me os meus óculos !”
Ché proprio nel buio dei sensi si trovano le risposte migliori.
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