Da Fëdor a Chet il tragitto potrebbe risultare sconnesso, eppure. La tristezza è riflesso di un sogno negato.
Distesa fra gli Alburni e i Lattari c’è una città, non più feudo di “Notti bianche”. La malerba dei signorotti ha provveduto a distruggere le trasposizioni oniriche di una passione, quel che resta è almost blue: tristezza.
Il lirismo di un tempo, lasciato il campo al cinismo, non ha più senso d’essere. Brusco ritorno al reale, effetti collaterali di un amore che naufraga a vista.
Esiste, ricordiamolo ai meno attenti, una pachidermica differenza fra l’invettiva e lo schiamazzo. Così come onestà intellettuale e servilismo spicciolo parlano due idiomi incomprensibili fra loro.
Bisogna posizionare tutte le tessere al proprio posto e ribadire – ancora una volta – che il supporto alla squadra esula dalla sacrosanta critica al comparto societario. Nessuno – occorre evidenziarlo – è rimasto impassibile sulla bordata di Casasola al 93esimo minuto. Nessuno ha storto il naso per quel punto trovato letteralmente a terra, laddove posano le fondamenta del Battistero di San Giovanni. La Torre, ahinoi, è altamente inflazionata e la felicità – diceva il Principe Antonio De Curtis – è fatta di attimi di dimenticanza.
Il sostegno al gruppo, pertanto, va di pari passo con la contestazione alla società. Solo un miracolo sportivo, quale la promozione in massima serie, sarebbe in grado di garantirci la liberazione, mettere i proprietari con le spalle al muro e addolcire le scorie di un sistema marcio: la multiproprietà è una sozzura.
Non è, però, l’unica incrostazione sulle facciate istituzionali. Assolutamente. In Federazione le crepe superano in quantità le pareti. La multiproprietà dichiarata tale, fra le tante che procedono sottotraccia, rappresenta l’armoire sbilenco per un postribolo di pessima fattura. È il guardaroba stracolmo di tarli in cui depositare cappotti dismessi, senza alcuna cura, nel ricordo di lavanderie andate.
Diffidare, questo è il verbo all’infinito a cui dobbiamo ancorarci.
Fa oltremodo piacere l’interessamento di Marco Mezzaroma – novello paladino della Salernitanità – per gli errori della classe arbitrale, per le storture di quel salotto di cui, poco prima, era assiduo frequentatore. Ma perché farsi megafono dell’antipolitica calcistica – ora che anche Beppe Grillo sembra essersi allineato alla cosiddetta casta – e non guardare in casa propria? Magari alla condotta di un Direttore Sportivo che, nonostante i budget milionari concessi in tempi di vacche magre (Ipse dixit), poco altro ha riportato in patria se non due retrocessioni – che l’odiato palazzo ha scongiurato – e innumerevoli figuranti finiti chissà dove.
Giochini logici, del resto, voce del verbo deviare.
L’edicolante del potere altro non aspetta, gioca di sponda e tenta di far cascare il lettore nella tela. Non ci sono guerre intestine, la tifoseria è totalmente contraria all’attuale gestione. Ciò che resta sono macerie, qualche favoruccio e pile di scartoffie. Null’altro.
Ché qui a pagare, come sempre, è chi pretende di sognare senza alcun legaccio. Guardatevi intorno, specchiatevi pure in voi stessi, Salerno non è più una città per sognatori. Lo leggi negli occhi della gente uniformata e stanca, non più diapositive di illusione benigna, non più volubili come solo il sognare comporta. Bensì macigni che, ormeggiati all’asfalto (e alle norme), si trascinano a stento.
Consultare Fëdor Dostoevskij per credere.
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