Salerno è attraversata da una spaccatura fra apocalittici, cioè i gufi: quelli che rosicano contro Lotito e Mezzaroma, che si ribellano all’idea di essere la ruota di scorta dei padroni romani, e integrati, i servi di potere: quelli che gli altri vogliono il male di squadra e città, quelli che: «Solo noi siamo veri tifosi».
Se questi due mondi si incontrano in dibattiti più o meno pubblici – evento raro perché la tendenza, a dire il vero, è quella di starsene ognuno con i suoi simili – accade che l’apocalittico dica: «Si però sono anni che facciamo sempre la stessa fine», e l’integrato ti guardi con l’aria del cugino grande che sorride al cugino piccolo e pensa che il cugino piccolo le cose degli adulti non le può capire: «Ma figurati se non vogliono vincere. Hai idea di come vada il calcio? Ti pare che un calciatore e una Società non vogliano valorizzarsi?»
Se due anni fa mi avessero chiesto: «Pensi che la Società remi contro la promozione in serie A?», lo avrei guardato come il cugino grande.
Poi, piano piano, ho iniziato a pensarla diversamente e mi sono chiesto perché anch’io – che non faccio nemmeno il tifo contro le squadre “nemiche” e non amo i gemellaggi, figuriamoci se mi piace perdere tempo con le dietrologie – sono caduto nella trappola e mi sono avvitato sulla questione.
A dirla tutta, credo che il vero problema, per un tifoso, non sia sapere se la Società voglia puntare alla promozione. Il vero problema nasce nell’attimo in cui il tifoso si pone questa domanda. Da quell’attimo in poi, ha perso. La sua essenza viene snaturata. Quel pensiero lo fa entrare in un tunnel ossessivo e cervellotico che non c’entra più con la partita.
Si dirà: «È un problema suo, è un paranoico».
No. Perché, in psicologia, il paranoico è chi elabora in modo lucido e sistematico una serie di idee e credenze incentrate sulla convinzione, errata, di essere perseguitati. Il paranoico non ha l’aggancio con la realtà. L’apocalittico salernitano, ahimè, ce l’ha eccome.
La sua posizione diventa innaturale perché non può occuparsi delle cose per cui è programmato: deve rinunciare alla sospettosità da campo, quella di chi davanti a un rigore negato pensa che dipenda da un’atavica antipatia dell’arbitro nei confronti della Salernitana, quella di chi dopo un gol sbagliato ritiene che lo spirito di Chianese si sia abbattuto sul Joao Silva o sul Bus di turno.
La sua genetica complottista deve uscire dal prato verde e raccogliere forze per districarsi nella foresta dei mondi societari, deve addentrarsi in strategie imprenditoriali che gli sono aliene.
Questo avvelenamento dei pozzi, alla fine del mercato invernale e in un momento di fisiologico calo della squadra, aumenta lo smarrimento.
Sarebbe bello discutere di Sy, Durmisi e del buon Kristoffersen. Oppure di Coulibaly, che è un valido portatore d’acqua in mezzo al campo ma noi, i portatori d’acqua in mezzo al campo, già li avevamo. Invece finiamo a discutere su se il calciomercato sia stato fatto con un consapevole freno a mano tirato. Vorremmo parlare di un 3-5-2 che è 5-3–2, del ruolo di Jaroszynski quinto a sinistra, del perché non sono stati presi il centrocampista centrale e la riserva di Tutino e Djuric, ma abbiamo sempre il dubbio di perdere tempo.
Perché non ci piaceva Berlusconi quando passava il suo tempo con le olgettine? Perché Ruby ci mandava su tutte le furie? Non solo per una questione morale. Lo spirito da campatore di Berlusconi qualche volta ci faceva perfino sorridere. Il suo comportamento era inaccettabile perché quelle debolezze rendevano ricattabile un Presidente del Consiglio. Ingeneravano il dubbio che prendesse decisioni incompatibili con il suo mandato. Scatenavano un retropensiero rispetto a situazioni che non ci sembravano chiare.
La gestione di una multiproprietà ingenera lo stesso dubbio. Scatena lo stesso retropensiero.
Castori è un allenatore simpatico, ha capito il materiale umano che deve maneggiare e lo ottimizza. Ci piace la sua schiettezza. Ma quella schiettezza avrebbe un valore diverso se non fosse, anche lui, inserito in questo turbine. Ha detto che Anderson è seconda punta per convinzione o per aziendalismo? La domanda, in questi termini, se la porrebbe anche un tifoso del Monza. Ma a Salerno aggiungiamo una variabile: «Lo ha detto per aziendalismo “semplice”, o per mettere una pezza a colore sempre a quel freno a mano tirato?».
Tutino. Va benissimo stare in panchina se hai un momento di calo. Ma in questa gestione familistica della Società, se qualcuno dicesse: «É stato messo al posto suo dopo che ha cambiato procuratore e questa cosa non è piaciuta alla dirigenza», il dubbio che abbia ragione lo avremmo. E da tifosi, questo dubbio non lo dovremmo avere.
Kiyne è il paradigma dei tempi. Lui che fa chiaramente capire che qui si sente sprecato, va avanti e indietro fra Roma e Salerno. Deve fare la spola quando la sua situazione, in una società «unica» e non «multipla», avrebbe avuto un finale diverso.
Mezzaroma ha rilasciato una serie di dichiarazioni su alcune decisioni arbitrali: una manina esterna remerebbe contro la Salernitana. Mi è sembrato Paratici e Nedved che si agitano contro l’arbitro di Napoli-Juventus. Ma facciamo finta di non sapere che è in corso una guerra legata a controllo di FIGC, finanziamenti e diritti TV. Diciamo che Mezzaroma lo fa perché pensa davvero che sia così, diciamo che magari è così.
Quelle dichiarazioni sanno di chiamata alle armi, di richiesta di compattamento contro un nemico che sarebbe il Palazzo. Un tentativo di attribuzione esterna di responsabilità nel momento in cui il campionato entra nel vivo: non i valori tecnici, non la tattica, non il mercato.
Premesso che mi sembra evidente come, mai come quest’anno, fortuna e sfortuna si compensino, una conseguenza del clima teso e sfibrato ingenerato dalla multiproprietà è il fatto che questa chiamata non può avere un sostegno di piazza. Le battaglie della Società non possono essere le battaglie dei tifosi perché loro comprano i giornali per avere notizie di mercato e leggono di calciatori che parlano di Lazio B, pagano DAZN e vedono la squadra che parte con l’aereo privato della casa madre, fanno domande e si sentono rispondere che, quando sono arrivati loro, qui non c’erano nemmeno i palloni. In altri termini, il tifoso guarda la partita e si sente cornuto.
La multiproprietà inquina una passione. La rende sospettosa, diffidente. Crea fratture, offre il fianco a fraintendimenti, a spaccature e manipolazioni.
Il tifo, alla fine, altro non è che una forma di amore. Un amore sospettoso è un amore avvelenato.
Una multiproprietà alimenta sospetti, una multiproprietà è avvelenata.
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