Credo che qualsiasi tifoso – di qualunque squadra dell’universo mondo – affermi la stessa cosa.
Solo che in questo caso è vera. Memoria storica poca ne è rimasta, e poco la si tramanda, vero, ma a tifare Salernitana tocca portarsi addosso croci più numerose di quella che cantava Pino Daniele parlando del mare.
I minuti di paura di questa giornata, scanditi dall’ottantacinquesimo in poi, dal momento cioè in cui abbiamo visto Patryk Dziczek perdere l’equilibrio, la conoscenza, annaspando drammaticamente nel tentativo di rimettersi in piedi, resteranno nella memoria.
Soprattutto nei tifosi della mia generazione, che ha visto cadere Renato Curi a Pian di Massiano, Manfredonia perdere conoscenza a San Siro. Ben prima di Morosini a Pescara.
Ma a noi, a noi tocca sempre di peggio e di più.
Da Giuseppe Plaitano in poi, ci è toccato leggere e raccontare di tragedie nel dì di festa. Perché sì, una volta quando si giocava a pallone era giorno di festa.
E se la storia più recente racconta di pericoli scampati –penso a Iannarilli a Lucca, ad Ettore Mendicino a Matera– è vera una cosa: quei momenti di paura sembrano andare via, in realtà lasciano cicatrici e modificano gli approcci.
Sono un’eredità morale che –è il mio caso almeno– spiegano forse meglio il sangue che ribolle quando si nega la storia, quando si derubrica il senso di appartenenza a condizione facoltativa.
Come può essere? Non può, ed infatti non è.
Ché il tessuto connettivo tra la passione sportiva e le nostre vite non è roba accessoria che si possa asportare ad altrui convenienza.
Nei lunghissimi minuti trascorsi impietrito davanti a DAZN, il pensiero correva al mio amico Paolo, a suo padre Bruno.
Alla tragedia troppo –troppo– dimenticata del Maggio 1981 a Giulianova.
Quando il dottor Tescione, medico sociale dei granata, si sentì male sul campo, quando il suo cuore iniziò una danza impazzita, per fermarsi nella notte.
Lo vedete, di lacrime e paura abbiamo avuto robusta dose e varietà.
Da quelle semplici, legate ad una retrocessione come ad una “ordinaria” bruciante sconfitta, a quelle pesanti.
Legate a chi in quel momento indossava i nostri colori, portava il nostro nome.
Non come gli altri, molto più di tutti.
È per questo che ci ribolle il sangue, anche per momenti come quelli che Patryk ha evocato oggi.
Un tempo credevo non ci sarebbe mai stato bisogno di spiegarlo.
Oggi, ahimè, credo sia inutile.
le Cronache | 21 Febbraio 2021