Francesco Di Tacchio e Vittorio Parigini, l’exploit granata al Cino e Lillo Del Duca sintetizzato in uno scatto. La palma di migliore in campo non verrà impugnata da Gennaro Tutino, nonostante doppietta e prestazione maiuscola.
Stavolta non è questione di 11 metri, né di sfere che varcano la frontiera dei tre legni. La giocata più importante, quella che guadagna la copertina, si è materializzata a palla lontana.
Al minuto 85 il cronometro è ancora, suo malgrado, il giudice supremo. Non è più l’alleato con cui giochicchiare in attesa del triplice fischio, è il nemico da sovrastare cercando di scongiurarne i rintocchi. Patryk Dziczek si accascia e, per due volte, prova a rialzarsi prima di perdere i sensi. Scene viste più volte, disumano abituarsi al terrore che provocano.
La paura gela lo sguardo, le mani corrono fra i capelli, il volto diventa cera. La memoria, pur tendendo ad esorcizzare certi attimi, rievoca esperienze già vissute.
Le immagini di ieri riportano alla mente un Camerun – Colombia del 26 giugno 2003, un Siviglia – Getafe del 25 agosto 2007, un Pescara – Livorno del 14 aprile 2012. Marc Vivien Foe, Antonio Puerta e Piermario Morosini oltre a condividere l’anima e il ruolo, hanno condiviso il destino. Fra i fili d’erba e le linee di gesso hanno esalato l’ultimo respiro.
Vittorio e Francesco, esterno offensivo e diga della mediana, bianconero l’uno, granata l’altro. Estro e imprevedibilità contro pragmatismo e carisma. Uniti nell’eroicità dei gesti.
I due ragazzi non hanno tempo per pensare, a volte l’istinto è l’unico battistrada a cui affidarsi. Fiutano l’innaturalità della caduta e si fiondano su Patryk. Un allungo disperato verso quella maledetta zolla. Il tempo, cristallizzandosi, assume le sembianze di un boia in attesa. Il primo soccorso prestato al centrocampista polacco è da manuale. La comunicazione non verbale fa da padrona, i due calciatori sembrano conoscersi da anni. Perfetta la cooperazione con cui si accingono ad evitare la retropulsione linguale in attesa dello staff medico e degli operatori della Croce Rossa. “Possiamo essere eroi, giusto per un giorno”, dicevamo. Vittorio e Francesco lo hanno dimostrato, rivelandosi fondamentali nel salvare una vita.
Altrettanto tempestivi gli uomini della CRI, in trenta secondi esatti l’ambulanza irrompe sul rettangolo verde. I fotogrammi che seguono – posati e per nulla invadenti, merito della troupe di DAZN – esprimono la cruda sofferenza in cui, all’improvviso, precipitano gli interpreti in campo e le migliaia di spettatori incollati ai teleschermi. Minuti interminabili, il sangue continua a pulsare ma con meno frequenza. La parola “defibrillatore”, pronunciata dal cronista, rappresenta i due volti della speranza: timore e salvezza.
Fortunatamente non ci sono state problematiche dal punto di vista cardiaco e Dziczek, ufficialmente fuori pericolo, si è ripreso spontaneamente. Ad attenderlo, ora, una nuova e lunga trafila di consulti specialistici. Le possibilità di rivederlo in campo si affievoliscono. Se due indizi fanno una prova, l’ulteriore comparsa di tale sintomatologia non è più affidabile al mero caso.
Proviamo, però, ad essere più specifici. Patryk è stato colpito da una sincope causata da crisi vagale. Il vago è il nervo in cui decorrono le principali fibre del sistema nervoso parasimpatico (interviene nelle funzioni corporee involontarie). Una perdita di tono del vago – dettata, più specificamente, da un’ipereccitazione del nervo con predominanza del parasimpatico sul simpatico – può determinare un deficit sensoriale. La sincope da crisi vagale, pertanto, è un’improvvisa e transitoria perdita di coscienza a risoluzione spontanea. In molti casi l’eziologia è sconosciuta, perciò diventano vani gli accertamenti a cui il giovane si è sottoposto a partire dallo scorso settembre, al tempo della prima comparsa dei sintomi. Decadono, in questo caso, le responsabilità dello staff medico della Salernitana e i dubbi relativi alla concessione dell’idoneità sportiva all’atleta.
Quel che resta, contornato da un sospiro di sollievo, sono diapositive di attesa e spavento. Un nugolo di abbracci e mani che si stringono. No, il calcio non è un gioco. Si è prima uomini e dopo giocatori, Parigini e Di Tacchio ne sono la prova.
Scriveva Ivan Tresoldi, un poeta di strada milanese: “Ci son vite che càpitano e vite da capitàno”. Quale chiosa migliore per sottolineare l’indole del nostro numero 14. Colui che incarna pienamente la fascia che indossa al braccio.
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