Dedicato ad Amatino e alle volte che ci incontravamo e avevi lo stesso sguardo di Chinaglia.
Se non ti sparavi in vena
ti sparavi in piazza
Sono tornati gli anni di piombo.
Fortunatamente solo al cinema e in letteratura. È in atto un gigantesco amarcord su quegli anni tosti che devo dire non mi aspettavo.
Perché si è sempre avuta la tendenza a dimenticarli.
Troppo sangue, troppo piombo, troppi morti, troppa eroina. E per anni sapevamo che erano successe delle cose che hanno cambiato il nostro paese ma ci siamo sempre girati dall’altra parte.
Abbiamo voluto ricordare solo quello che ci faceva più comodo.
In queste settimane ho letto due libri.
Il primo non c’entra niente con il calcio ma con l’amore di un ragazzo per suo cugino.
Quel cugino si chiamava Walter e di cognome Alasia. Leader di Lotta continua a Milano prima e poi delle B.R.
Ucciso a Sesto San Giovanni dopo uno scontro a fuoco.
Aveva 20 anni.
Poi colpito da quello che avevo letto, mi sono lanciato a leggere un libro che avevo li in libreria da un po’ ma che non avevo ancora letto.
Si è la storia di quella Lazio là. Quella che aveva due spogliatoi perché i due clan non volevano neanche annusarsi.
Quella Lazio che nel suo spogliatoio aveva giocatori che prima si andavano ad allenare e poi a lanciarsi con il paracadute. O a prendere il brevetto di pilota di aerei.
Quella Lazio il cui leader aveva in macchina un Winchester e lo portava all’allenamento. In realtà in quella squadra non mancavano P38 e Smith & Wesson.
Ma le vere battaglie avvenivano nella partitella del Venerdì che divenne una sorta di Fight Club e un evento nazional popolare con tanto di partecipazione di tifosi vip.
Volavano cavc a cecat il venerdì ma la domenica diventava un corpo unico e solo pronto a lottare contro tutto e tutti.
Quella Lazio nel fortino di Tor di Quinto imbarcava tutto e tutti. Estremisti di destra, membri della banda della Magliana, ragazze in cerca di notorietà, persone che salivano sul carro del vincitore, fughe dai ritiri e colpi di pistola contro i lampadari delle hall in albergo.
Il direttore di questo circo itinerante fu una persona degna di gestire, di chiudere un occhio sulle intemperanze dei suoi giocatori.
Tommaso Maestrelli.
L’unico che li faceva mettere d’accordo.
L’unico che decise che quegli uomini potessero vincere divertire e cambiare la storia del calcio.
Perché sarà difficile vedere una cosa del genere. Una squadra che viene dalla B sfiora lo scudetto il primo anno (con Chinaglia che durante la partita di Napoli chiede quanto volessero per scansarsi e Iuliano gli rispose: «Siete arrivati troppo tardi».
E lo vince l’anno dopo.
Ecco mentre loro vivevano nella loro bolla di Tor di quinto a Roma succedevano cose importanti.
Si moriva.
Perché le manifestazioni oltre gli striscioni e gli slogan c’erano Molotov, P38 e spari.
E se non erano tra compagni e camerati erano scontri e con la polizia.
Lasciando sulle piazze odore di cordite e macchie di sangue.
Ma anche di lacrime di padri e madri in obitorio.
Non solo in piazza ma anche negli stadi si cominciò ad usare la partita, la fede calcistica per riunirsi nelle curve e dare sfogo alla violenza.
E cominciò, per chi si sentì solo disperato e sconfitto, a usare i famigerati cessi delle curve dell’Olimpico a farsi di eroina.
E morire di una cosa diversa.
Poi finì il tempo della gloria per quel manipolo di pazzi, finirono le folle il venerdì e furono lasciati soli con il rischio di retrocedere.
Ma Papà Tommaso lasciò nel letto il tumore e decise di rientrare mentre Chinaglia fuggiva in America.
Aveva una missione lasciare la sua creatura là dove l’aveva portata.
E li salvò. Dalla serie B e dal disonore.
Ma quel male fu più forte e se lo portò via. Portandosi via tutto, le cene dove intellettuali musicisti e giocatori si sedevano a mangiare la pasta e piselli della moglie, si portò via la leggerezza.
La gente non li riconosceva più.
Come quel gioielliere che non riconobbe quei due (l’altro era Ghedin) entrati nel suo negozio.
Ecco, Re Cecconi fu vittima del piombo più assurdo e stupido.
Con la sua morte finì un’epoca.
Sì bisogna parlarne e ricordarci di cosa e chi siamo stati in quegli anni.
Peccato che quella pasta e piselli la sig.ra Maestrelli non la cucina più per nessuno.