Il vento ha fischiato e il sole sorge sempre ad est, qui si onorano i caduti.
I morti di Reggio Emilia, quando ogni piazza custodiva l’anima proletaria e la tendenza a lottare contro i soprusi. Sette luglio 1960, la lunga parentesi centrista cede il passo alle scelte muscolari. Per la prima volta – a 16 anni di distanza dalla svolta impressa da Togliatti, dal gelo di Mosca alla nostra capitale marina – i neofascisti tornano ad avere voce in capitolo.
Si tratta di quella stagione che anticipa due decenni di violenza a trazione centrifuga: dalla tensione al piombo, passando per un compromesso storico valido esclusivamente sulla carta.
Parliamo, in quel tempo, del monocolore DC – il Governo Tambroni, il quindicesimo scudo crociato – che per la prima volta previde l’appoggio esterno del Movimento Sociale Italiano, all’epoca guidato dalla mano meno eversiva di Arturo Michelini.
Mesi di proteste, cariche e scontri coagulatisi intorno alla provocazione più grande: Genova, Medaglia d’Oro al valore militare della Resistenza, designata tappa fondamentale per un congresso del MSI.
Barricate e guerriglia fra i carruggi, la Superba si risveglia e ottiene la sua vittoria, nel grido di Dolores Ibárruri: “No pasáran!”
Scarnificazioni del ricordo collettivo aiutano a crescere, a volte però si evolvono in processi difficili da prevedere. Accade così che l’inferno rosso della Working Class si trasformi in un paradiso artificiale fatto di marcette, proclami e teste rasate. Tutto quanto tenda, ormai, a destra. Epitaffio di un’epoca di battaglie, del resto sono le braccia a far sventolare le bandiere. Fra il volto del Che e una croce celtica c’è l’universo umano. La carica sociale di una partita di calcio svela le sue inarrivabili contraddizioni. Si casca, tuttavia, nell’irrimediabile vuoto ideologico: laddove l’emblema diventa questione di stile e non più messaggio da veicolare. Concetto valido per entrambe le fazioni politiche.
Allo stesso modo, come anticipato dalla voce di Max Collini, ho ricevuto le mie dosi massive di educazione. Al calcio e alla vita.
La mia Salernitana contro la sua Reggiana. Il campo di battaglia non è più il Mirabello, né tantomeno il Mapei Stadium – Città del Tricolore. Nel solco del tradizionalismo calcistico, preferisco chiamarlo Giglio. Neanche tanto necessario soffermarsi sulla stretta attualità, le velleità del cammino, tutto ciò che rende insonne una notte: l’incubo retrocessione, il treno dei playoff, la voragine dei playout e il sogno promozione. Altrettanto inutile soffermarsi sull’esito dell’andata, codicilli e dinamiche di un calcio post-moderno con la morte cerebrale nel cuore.
Tanti punti in comune, tanti stravolgimenti culturali e politici sul bancone di questo bar di provincia.
“Piccola Storia Ultras” descrive epoche di pre–transizione, non c’è più Pajetta, non ci sono Almirante e Fanfani. Gli amici son diventati nemici e viceversa.
Nel mezzo le svolte non svolte che hanno reso materia di studio la genesi della seconda repubblica. Scissioni e processi al nuovo, vie programmatiche rimaste deserte. Da Rimini a Fiuggi, passando per Roma. Da Occhetto a Fini, passando per Martinazzoli. Tutto ciò che ha disseminato il frammentare e il disconoscere la storia, cambi di trincea e rincorse agli scranni istituzionali. Tutte le giravolte che hanno consentito la discesa in campo ai nuovi cavalieri, senza cavallo ma con la scorta extralusso. Tutto quel che, ancora oggi, ci tiene ancorati alla percezione – tanto avventata quanto ghettizzante del pensiero unico – che le piazze siano ritrovo per facinorosi e il Parlamento sia un conciliabolo di malfattori. Senza mezze misure, annacquando di populismo tutto ciò che, nel complesso, si ignora.
“Avevo 7 anni quando, per la prima volta, sono andato all’Arechi con il mio papà. Di calcio conoscevo solo il nome della mia città, il colore della mia pelle e il simbolo che – ancora non ne ero al corrente – mi avrebbe destinato a innumerevoli sofferenze: Salerno, il granata e l’Ippocampo.
Di politica sapevo solo che quando appariva Berlusconi alla televisione, nell’ora d’aria concessa ai canali Mediaset, era necessario lanciare un tovagliolo verso lo schermo e, con sforzi di petto, lasciar strabordare il buon nome di determinate divinità. Quando invece comparivano Prodi o D’Alema, beh! La reazione era pressoché identica ma, se possibile, leggermente più contenuta”.
La mia famiglia non ha mai amato le sinistre slavate.
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