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Vieni a fare l’haka con me

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If people only remember me for my football, I’ve failed in life.

Ecco il Football Australiano.

È uno di quegli sport (gli altri sono lo snooker e le MMA) che – quando li danno in tv – la prima reazione è cercare il telecomando e cambiare canale.
Si gioca in un campo da calcio circolare (certe volte pure io vedevo l’Arechi circolare, ma per altri motivi…), le porte hanno 4 pali ma soprattutto: mazzate alla cecata.

Per affluenza e interesse, in Australia se la gioca col rugby.

Dello sport australiano conosco giusto qualche atleta: Thorpe, Tiatto, Ikonomidis.

Ho visto un film:

https://www.youtube.com/watch?v=G51mHKwWwZk&feature=emb_title

È la storia di una superstar di questo sport. Aveva due difetti: Essere un fuoriclasse, essere un aborigeno. Un nero, come vengono chiamati i nativi.

È una storia di un uomo che, nella scala dei valori del razzista australiano, tocca il grado più basso: figlio di un’aborigena e di uno scozzese/irlandese, è forte fisicamente, e rispose agli insulti razzisti in questo modo:

Per gli australiani quel gesto (I’m black and proud) nel 1993 fece la Storia, un po’ come il guanto nero di Città del Messico.
Lo celebra una statua fuori dal suo stadio.

E fa niente che la sera stessa, durante l’equivalente della Domenica Sportiva, dopo essersi rifiutato di andare in trasmissione il suo gesto fu simpaticamente commentato da un opinionista biondo, presentatosi in trasmissione dipinto di nero.

Ecco, Adam Goodes ha cominciato a giocare in questo ambiente. Più diventa forte, più nelle sue interviste parla del genocidio della sua gente. Ogni volta che sale su un palco per ritirare un premio ricorda che bisogna lottare e soprattutto educare (non punire…) i tifosi, per evitare i fastidiosi buu razzisti negli stadi.
Il 24 May 2013, mentre raccoglieva una palla, sente una voce femminile che gli dà dello scimmione.

Ferma la partita e si rivolge ad uno steward, invitandolo a fare uscire lo spettatore: una ragazzina di 13 anni.

E lì, quelli che ‘nonsonorazzistamahomoltiamicigay’ o ‘bastaconquestofintoperbenismo’ si scatenarono: ma come, un giocatore grande e grosso se la prende con una ragazzina?

In una conferenza stampa, con un groppo alla gola disse, una cosa semplice: “Io non ce l’ho con la ragazzina. Ce l’ho con il sistema che permette tutto questo. Questa bambina va aiutata”.

Non l’avesse mai detto.

Cominciò una delle più becere gare tra le tifoserie a chi facesse più rumore con i buu. Miccia innescata da un presidente, che in diretta corse per dargli solidarietà ma qualche giorno dopo fu beccato a fare battute su di lui paragonandolo a King Kong.

La sua risposta: “Ma sono battute goliardiche su un amico”.
L’altra risposta: “Friends don’t make jokes about their friends like that”.

Insomma, i tifosi e non solo si divisero. Chi sosteneva ‘noi fischiamo il giocatore e non il colore della sua pelle’ e chi pensava a cose così:

Il suo compito era ormai finito. Ma solo in campo.

Fuori, è un marito ed un padre felice e collabora attivamente con organizzazioni che si occupano degli aborigeni e dello loro condizione.

Ah: il film non parla solo dello sport di cui non ho capito le regole, ma alterna immagini e racconti come quelli di sua madre.

Il programma di assimilazione. Una generazione fu rapita e portata in campi di lavoro dove, a furia di lavaggi del cervello e di molestie mentali e fisiche, cercarono di inculcare lo stile di vita dei bianchi.

Mentre guardavo questo film, pensavo a quelli che condividevano un post che decantava la politica australiana sull’immigrazione.

Ecco: mi veniva in mente di invitarli a vederlo, questo film.

E poi ancora.
E ancora.
E ancora.

Come il lungo e dolorosissimo suono di un didgeridoo.

Poi: non avessero ancora capito, fargli una cosa così:

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