Dice che lo sport affratella.
Non sono titolato a confermare o smentire, in realtà sportivo non sono mai stato.
Una cosa sento di poterla dire, anche se i ricordi iniziano a perdere colore.
Vedere una partita di calcio non è esattamente come recarsi in una beauty farm.
Sempre, ma particolarmente quando vai a vedere uno spareggio.
Quel giorno, da pomeriggio diventò sera e poi notte.
Ché le tende dalla Laguna le tolsi che era tardi, tardi assai.
Ci ricordiamo tutti il motivo, i supplementari, i rigori.
Di altro mi ricordo e ho raccontato di quell’anno.
L’uscita dall’Arechi, l’abbandono —mai spiegato, mai raccontato— di una squadra da parte di una dirigenza fino alla retrocessione di Pescara.
E poi vabbè, i ricordi di quella giornata, le facce tese di chi era andato a vedere sostanzialmente sapendo come andava a finire, ma meglio controllare che non si sa mai.
Lo fecero pure quei due dietro alla grata. Lo fecero pure gli alfieri della fede. No, non quelli in curva, gli altri.
Vabbè, non mi (ri)voglio intossicare.
Non è questo il ricordo da evocare qui, non è questo il flashback acceso dal gol di Esposito che ho guardonato su DAZN, dal 3-0 sul Cosenza che mette ancora il Venezia nel destino della Salernitana.
Il ricordo é per il mio —credo— coetaneo veneziano che stava in tribuna al “Penzo” quel giorno. Messo meglio, messo peggio, non lo so.
Messi bene non stavamo, entrambi.
Io avevo finito le batterie delle Ecig, lui le birre.
Io la voce, lui no.
Oddio, è sempre un’esperienza interessante.
In questi anni ho sentito insultare Claudio Lotito in tante tribune, in tanti dialetti.
Sempre con intenzione, sempre guardando me, etnicamente riconoscibile.
Insultavano Lotito guardando me, leggetelo lentamente.
Rivendico il merito: mai mi sono dato a capate nella balaustra.
Vabbè, non mi (ri)voglio intossicare.
Vennero i penalty, venne Di Tacchio, venne una tribuna che si svuotava.
Urla finite, gradoni vuoti, quasi.
Il coetaneo era lì che piangeva.
Andai lì, mano sulla spalla.
Non traete conclusioni sulla fratellanza, non sono sportivo.
«Sono 3 ore che mi massacri per un peccato che non ho commesso e che mi hai fatto scontare. Che chiagn’a fà (sic), oggi abbiamo perso tutti, domani mattina non perde nessuno. È capace che ci ritroviamo pure più in alto.»
Ho il dubbio che abbia capito le parole, il senso si. O mi prese per pazzo. Fatto sta che fu correo in quell’abbraccio. Di batterie esaurite, di birre finite, inevitabilmente sudaticcio.
Confermo, lo stadio “Penzo” non è una beauty farm.
Adesso che ci penso, è l’ultimo abbraccio che ho dato all’interno di uno stadio.
Chissà che fine ha fatto, il correo, e che ne pensa ora, che Salerno e Venezia incrociano ancora il loro destino.
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