Fiumi di inchiostro sono stati spesi finora, diverranno mareggiate. Finché il gallo canti, tre volte e anche più.
L’accordo della vergogna è stato raggiunto nottetempo. Figlio di quella diplomazia sotterranea tanto osteggiata da Woodrow Wilson nei suoi quattordici punti, al tramonto della Grande Guerra. Più che un accordo, una sorta di ultimatum. Non ha ancora emesso i primi vagiti ma è già destinato alla forca.
Ha registrato una cifra monstre – è il caso di dirlo – di levate di scudi. Da Gary Neville a Liam Gallagher, da Virginia Raggi a Nicola Fratoianni, passando per Jurgen Klopp ed Ander Herrera.
Ognuno, naturalmente, si è sentito in dovere di esprimere sdegno. A maggior ragione corpose rappresentanze di Ultras appartenenti al feudo delle squadre incriminate: Manchester United, Manchester City, Liverpool, Arsenal, Chelsea, Tottenham, Barcellona, Real Madrid, Atletico Madrid, Juventus, Inter, Milan.
Nella fattispecie, sono dodici i club – tre si aggiungeranno in corso d’opera – che hanno dato il “La” ad una delle più assurde rivoluzioni dall’alto: la SuperLega. Quindici compagini, dunque, parteciperanno alla competizione per noblesse oblige o ius divinum, fate voi. Altre cinque, inoltre, verranno inserite anno per anno, attraverso criteri ancora da stabilire.
Onore e merito al fatturato o alle vittorie di campo? Domanda retorica, il maresciallo Jacques II de Chabannes de La Palice – colui che se non fosse morto sarebbe vivo – vi riderebbe in faccia.
L’universo calcio – fino ad oggi in deplorevole espansione – rischia di implodere, colpa di colletti inamidati e cravatte ben annodate: una meschina legione di plutocrati.
La morte della meritocrazia, il paradiso oligarchico è alle porte. Il sistema calcio è alle corde – non da oggi né da ieri – ed è giunto al canto del cigno.
Quanto vale una competizione per cui non si compete?
Chiedetelo ai Perez o agli Agnelli, chiedetelo a chi millanta un miliardo di supporters nel mondo. Chiedetelo a chi si fa beffe della povera mensa dei tifosi, fra le maschere e le tavole dei palcoscenici minori. Chiedetelo alle élite mondiali, ai fondi del gruppo JP Morgan o al titolo della Juventus F.C. che, in appena poche ore, è schizzato al +17,85%.
Il calcio è finito, con buona pace del popolo. È legge di un contrappasso che si ribalta: chi semina sogni si nutre di scorie, chi semina scorie si nutre di sogni.
Parliamoci chiaro, in regime di liberismo economico ognuno può ambire al mercato che più ritiene rappresentativo delle proprie ambizioni. L’importante, però, è scegliere a quale rubinetto attingere. Se si decide di sputare nel piatto di UEFA e FIFA – tutt’altro che schiere di cherubini, sia chiaro – è necessario farlo fino in fondo. Occorre armarsi di coraggio – inversamente proporzionale alla faccia tosta – e rinunciare, da subito, alla partecipazione nei rispettivi campionati nazionali, disfare le valigie e derubricare da Google Maps la strada per l’Atatürk Olimpiyat Stadyumu.
Alla gente comune, tutto sommato, poco appassionano i gineprai dell’alta finanza. Il pallone è scienza semplice, l’unica strada per riconquistarlo è la rivolta: disdire abbonamenti, disinteressarsi ai pastrocchi di plastica, interessarsi al calcio locale e svuotare gli abbeveratoi dei magnati.
Ché anche le formiche, quando si incazzano, sono in grado di far tremare i giganti.
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