Esplosione popolare, non tanto perché si entra – a pieno merito – a far parte dell’élite del calcio.
Ovvio che la mente corra alla stesura dei calendari, altrettanto ovvio che l’occhio corra ai palcoscenici che ci competono: Genova, Verona, Bergamo, Bologna, Napoli, Roma, Firenze, Torino, Cagliari.
Eppure, parlare di categoria non è l’argomento che appassiona più di tutti. Chi indossa questo simbolo, chi tramanda questa pelle da generazioni, ama sempre in egual misura: sia al Marcantonio Bentegodi di Verona, sia all’Arturo Valerio di Melfi.
Traducetela diversamente, il termine sceglietelo voi: autodeterminazione, affrancamento, emancipazione.
Siamo felici perché – finalmente – respiriamo libertà. La felicità è prerogativa di una città intera, L’Acheronte granata è qualcosa che non si può spiegare. Bisogna viverlo. È un pulsare di vicoli, un ronzare di voci e marmitte fra due ali di salsedine: fra il Duomo e le stelle, fra il Vestuti e il mare.
Il frullare delle voci, la febbrile impazienza di chiudere il capitolo multiproprietà, si coagula con la leggerezza ritrovata. Il futuro si prospetta realmente granata, mai più a sfumature biancocelesti.
Non è un sentimento di pochi, non è appannaggio dei novelli Armstrong dell’informazione, coloro che piazzano la bandierina sul suolo lunare del “come dicevamo noi”. Anche perché, se la memoria non inganna, si inneggiava alla Serie A anche a pochi mesi dallo sfascio, a pochi flutti dallo stillicidio di Venezia, nel pieno degli affronti capitolini.
Non se ne abbiano a male, quindi, le braccia sgrammaticate della legge, le sposine del neoliberismo in salsa salernitana. La gioia è collettiva, il girotondo cortigiano intorno alla figura di Fabiani non rappresenta la totalità della piazza. E, parlando di totalità, sono stato anche troppo buono.
Quella che ha condotto in porto questo campionato è stata una cavalcata lunga, avvincente. Un cammino di sguardi e silenzi, destini incrociati, rincorse e morsi e affanni. L’hangover da radiosi giorni di maggio non è propriamente una costante del cammino granata, eppure esiste: a cadenza decennale.
È la fede – messa in discussione dai più – a non vacillare mai, è questo un concetto elevato che esula dai discorsi di scuderia. È questa una vittoria delle componenti in pantaloncini, tuta e cronometro. Chi ha trasformato i mugugni in tripudio è questa Squadra, questo Allenatore, questo staff. Le costituenti di un successo, del resto, sono molteplici e condivise: sudore, attaccamento, lavoro, notti insonni, sofferenza, fortuna.
La sorte – si sa – tende la mano agli audaci. Qui, l’audacia, è pane quotidiano. Questo gruppo è nella Storia.
Per concludere, non venga a parlare di espropri proletari colui che – per mano della Classe Operaia – ha interrotto i propri interminabili silenzi.
La Liberazione è alle porte. Saranno un brutto ricordo tutti gli sguardi ingessati, il disamore e il distacco capitolino. Si godano pure – per questi giorni di festa – lo scampato temporale di Salerno ma poi vadano altrove ad esportare le proprie meraviglie.
La Salernitana – promemoria per il futuro prossimo – appartiene a tutti, non è merce di pochi. La Salernitanità non è in vendita. Si faccia bene a comprenderlo, in modo tale da non piazzare la spilletta esclusiva sulla giacca del prossimo offerente.
Ché anch’esso passerà, al contrario nostro.
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