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Cuccurucucù

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Franco Battiat
Franco Battiat
Tempo di lettura: 3 minuti

Prendi le canzoni che hanno formato il carattere, punteggiato la giovinezza, dipinto i primi amori. Mescolale, modellale, forgiale all’interno d’un brano che esso stesso le contenga a mo’ di matriosca.

E poi descriviti attraverso le congiunzioni astrali, riavvolgi i ricordi evocando visioni e colori, incastona le immagini coi richiami esotici. Aggiungi infine una linea di basso così pazzesca da creare dipendenza. Franco Battiato lo ha fatto, chiudendo gli occhi e lasciandosi travolgere dall’estro senza senso di chi ha la Luna e Urano nel Leone.

Più che una canzone, lo scalpello che incide il suo nome nel marmo degli immortali.

Dall’onomatopeico dolore delle colombe di Mendez, metafora dell’amor che vola via fino a Il mare nel cassetto di Milva, l’evocazione si dipana superando il grigiore, culminando nelle Mille Bolle Blu di Mina, in un mondo che ritrova colore. Cullandoci con la narrazione dolce di sensazioni e sentimenti, ci scaraventa verso il gran finale nel quale la matriosca si frantuma e libera la playlist dell’anima: i Beatles, Lady Madonna e With a little help from my friends e i Rolling Stones, Ruby Tuesday e Chubby Checker, Let’s twist again e poi ancora Bob Dylan, Like just a Woman e Like a Rolling Stone.

Once upon the time you dressed so fine.

Genio popolare ed elegante, ci lascia i ricami grazie ai quali cultura pop e filosofia stanno assieme senza mostrarsi sgraziate una accanto all’altra. Fine pensatore ed artista rivoluzionario, ha spalancato le finestre dell’Italia del piombo donandole aria fresca e più pulita.

È anche grazie a lui se un Popolo depresso e ricurvo ha trovato la voglia d’alzare la fronte e guardare oltre. Ha stimolato il pensiero, il dibattito, la speranza. Più prosaicamente, ha ispirato il trionfo che ci ha ricollocati sulle mappe del Mondo che conta.

Ché nulla veicola usi, costumi e culture come undici ragazzi in calzoncini dietro una palla.

Figli della provincia ancora genuina, che ha conosciuto la guerra e la ricorda. E sa cosa significhi.

Calciatori. Professionisti e tuttavia a misura d’uomo. Interpreti d’un calcio in cui soldi, procuratori e capricci sarebbero arrivati molto, molto dopo di loro.

Ragazzi imbarcatisi tra sputi e veleno. Nel disprezzo del popolo che rappresentavano. Condotti da un eretico sostenitore di Paolo Rossi anziché Pruzzo o Beccalossi, un bastardo direttore del lebbrosario.

Il girone, le figuracce, ancora sputi. Rimasero vivi per miracolo, resistettero, finirono col conquistare il Mondo.

Nei giorni dell’assedio, sospirata tregua costituirono gli spostamenti, durante i quali i ragazzi – ch’erano squadra dal primo giorno- vinsero ogni paura. Oasi di pace fu il pullman, nel quale i ragazzi cantavano e ballavano all’unisono trascinati dall’ipnotico sound d’una canzone, una soltanto, sempre quella.

Niente addii, solo inchini.

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Tifoso della Salernitana e del calcio. Che ama raccontare con spensieratezza.

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