È il racconto delle prime volte, siano esse reali o traslabili alla semina delle intenzioni.
Sul versante Nord della scarpata la nobile decaduta per antonomasia, al cardinale opposto l’anello di congiunzione fra i Balcani e la culla della cultura occidentale. A valle, per di più, la lotta per un terzo posto che – eccezionalmente, miracolo di un’edizione postdatata e itinerante – potrebbe rappresentare l’Eldorado degli Ottavi di Finale.
Alcun sogno d’una notte di mezza estate, solo afa di una controra qualunque. Obiettivo minimo ma, tant’è, chi si abbevera di un’Austria – Macedonia del Nord deve sapersi accontentare di leggerezze passeggere.
Prime volte, dicevamo. Per i macedoni, in effetti, è una verità assoluta. Mai, prima d’ora, la Legione di Alessandro – Легијата на Александар – si era confrontata con la fase finale di una competizione Uefa.
Stesso discorso non vale per gli austriaci, non si tratta di un esordio assoluto agli Europei ma, considerate le due prime volte, – 2008 da ospitante in compartecipazione con gli svizzeri, 2016 con appena un punto in tre gare – è come se lo fosse. Quantomeno per una questione di eleganza e ambizioni ritrovate.
Да не се Македонци, Македонците би биле најсреќен народ на светот.
Vasil Tolevski
Il detto riportato poc’anzi, comunque, ben si presta al paradosso di una Nazione: “Senza i macedoni, i macedoni sarebbero le persone più felici del mondo”.
Mai prendersi sul serio, soprattutto quando sei figlio di un’identità storica in condominio con un confinante – quello greco, appunto – molto più considerato e fin troppo scomodo. Ci si potrebbe svegliare, un bel mattino, privati di ogni simbolo: finanche del nome. Ci arriveremo fra poco.
Parliamo di una storia sbagliata, si parte dagli emblemi. Il concetto di controversia è molto caro ai macedoni, gli anni ’90 sono stati terreno fertile e palestra per la politica estera di un Paese che, pur nato da poco, ha iniziato a reclamare spazi e tradizioni. Più le tradizioni che gli spazi, in verità. Alla ricerca di un’identità che è costata finanche un embargo, il divieto d’essere riforniti al porto di Salonicco e il tracollo economico.
Partiamo dal Sole di Verghina, ad esempio, ritrovato in territorio macedone nel 1979 – meraviglie dell’archeologia – ed immediatamente revocato dai greci. Nel 1991, poi, venne adottato come bandiera per la neonata Repubblica di Macedonia: un putiferio.
Adonis Samaras, Ministro degli Esteri del governo Papandreou, nel 1995 parlò di simboli trafugati. Non solo, la minoranza albanese – presente in Macedonia – parlò di mancanza di rispetto. Tagliare la testa al toro, oltre ad essere uno sport molto praticato dai discendenti alessandrini, si rivelò la via più semplice. Tortuosamente semplice.
Perfino il nome Macedonia è stato al centro di battaglie squisitamente politiche. Peccato originale di un Paese che si scontra col forte conservatorismo – alle volte mascherato di progressismo – degli ellenici. Nel 2019, dopo un numero indecifrabile di testa a testa – poco – diplomatici, si è arrivati all’appellativo attuale: Macedonia del Nord. Il tutto per delimitare – quantomeno in campo linguistico – le differenze fra la regione greca della Macedonia e la neonata nazione priva di sbocchi sul mare.
È questa una costante dell’universo macedone. La sensazione, neanche troppo celata, di sentirsi in bilico sul crinale della Storia. Autogrill di frontiera, il non luogo per eccellenza con un passato sontuoso, un presente di macerie e un futuro tutt’altro che decifrabile.
Non si tratta, in alcun modo, di un ‘900 vissuto passivamente e in attesa degli eventi. Scavare troppo a ritroso, però, risulterebbe deleterio per chiunque voglia approcciare a questo articolo con la leggerezza che un Campionato Europeo consente. Ci occuperemo, pertanto, delle ultime battute di una storia molto più che millenaria.
Questa Storia, come promesso, non parte da troppo lontano. La morte del Maresciallo, Anno Domini 1980, ha assunto i connotati di una iattura. Una maledizione per quell’insieme di anime tessute a stento dal socialismo, un socialismo ben più reale di quanto si propagandava nella Grande Madre Russia: depredata da Guerre Stellari, infrastrutture fatiscenti e quella volontà di tenere il passo, pur claudicante, al cospetto dei giganti del capitale.
Provate pure a tenere racchiuse, in un palmo di terra, le tre grandi religioni monoteiste. Opera impossibile, eppure.
Eppure minareti e campanili sgranavano, a turno, il Rosario balcanico.
Storie che si intersecano per poi prendere il largo. L’indipendenza dalla Jugoslavia – avvenuta l’otto settembre 1991 – è stata acquisita per via referendaria: un corposo 75% decise di svincolarsi dalla Grande Federazione in avaria.
I macedoni, pertanto, non condivisero il destino di bosniaci, croati e kosovari. Non furono palizzate ma urne, non fu crepitio di AK-47 ma tacchi fra i seggi, non furono distese di mine anticarro a perdita d’occhio.
Il calcio, si sa, è la componente fondamentale di ogni rinascita. Ogni rituale di chi si appresta a nuova vita deve tener conto, assolutamente, delle mire calcistiche. La consacrazione di chi spera di affermarsi anche nella geografia delle linee di gesso e di cuoio.
Occasione ghiotta, fin troppo, sullo sterrato di Skopje: la Toše Proeski Arena. Una situazione da prendere al volo per una nazione in rampa di lancio, una nazione che – tutto sommato – sapeva benissimo di essere passata, in maniera caotica e poco specificata, da mero serbatoio per la nazionale jugoslava a cartolina di autodeterminazione e indipendenza, pur con le ingerenze elleniche in divenire.
Il fato sorrise, fin troppo. Laddove i campioni in carica – la Danimarca dei miracoli, devota a un ripescaggio ma pur sempre Signora del tetto d’Europa – dovettero spartirsi il pane e il punto con una nazionale autoprodotta e autocertificata.
Poesia, il calcio è questo. Soprattutto questo.
Quella masnada di fenomeni a chilometro zero, portatori di un gioco dal basso che non ha lo stesso valore semantico attribuibile oggigiorno. A dispetto di quanto accada quest’oggi – moine di un calcio ammiccante e standardizzato che si basa sullo studio di distanze e posizioni – il concetto di costruzione dal basso fu sinonimo di popolo.
Palla lunga e pedalare, tutt’altro che un’offesa. L’esito, poi, sontuoso: stoppare chi rappresentò – a torto o a ragione – l’élite del calcio europeo.
Biglietto da visita niente male per una nazionale che, improvvisamente, dipese unicamente da sé stessa. Così sarebbe stato, nel corso delle stagioni, così è oggi. Quasi un ventennio dopo. Nazionale di basso profilo, è vero. Mai vittima da sacrificare all’altare delle pallonate, però. Dignità da vendere, al netto delle fisiologiche sconfitte.
E così, da Elmas a Pandev transitando per Trajkovski, si punta a scrivere un nuovo capitolo. A metà strada fra i detriti degli indipendentisti e la polvere di un Impero decaduto, sulla rotta che conduce all’Arena Națională di București.
Per intraprendere il sentiero iridato che conduce alla madre di tutti i sogni proibiti.
Non più figli di secondo letto, non più irredentisti ma orgogliosa progenie di Alessandro Magno. Alla conquista di nuove affermazioni.
A prescindere dalla Cassazione dei legni e della Goal Line Technology.
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