di Michele Spiezia
L’anima del centravanti non è morta.
Due cognomi ma preferiva farsi acclamare con quello della madre: troppo comune quello del papà. Non voleva essere uno dei tanti. Altri tempi.
Dietro la maglia non c’era ancora stampato il nome: i difensori, poveracci – stesi e superati, travolti e tramortiti da così tanta selvaggia, beata e animalesca potenza – non sapevano mai come prenderlo, come fermarlo. Come bestemmiarlo.
Negli spogliatoi fra un tempo e l’altro s’accendeva una sigaretta, una nuvola di fumo come la scia che lasciava quando sfrecciava sul prato. Lì, sulla prateria a campo aperto, lì dove non l’avrebbero mai preso. Devastante e selvaggio. Come un bisonte.
Invece un comunissimo nordico come solo un nordico primi anni ’80, nella vita di ogni giorno. Indossava mocassini senza calzini, i compagni l’accompagnavano in boutique ma lui niente: casual è dire nulla. Disarmante. Gli bastavano il pallone e una vita qualunque, tra un whisky e un tuffo nell’acqua gelida in pieno inverno. Abitava sul lago di Garda, convinto dalla moglie a dire sì alla città di Romeo e Giulietta dopo un viaggio lampo, senza nemmeno vederlo quel balcone. Quella città che avrebbe strapazzato, quella città dove sarebbe nato il figlio, quella città che ancora adesso lo chiama “il sindaco”, quella città e quella maglia che non avrebbe mai abbandonato nonostante offerte più ricche e sirene suadenti, perché quando hai modo di conoscere e apprezzare chi soffre con te la domenica e partecipa alle tue gioie e ai tuoi dolori pur non essendo in campo, ti ci affezioni.
“Perciò, per rispetto di chi mi ha amato e osannato fino a invocarmi come sindaco, non ho mai accettato di vestire altre maglie italiane. Il loro rispetto meritava il mio rispetto”, spiegò anni dopo, ormai non più in campo. Lì dove invece fu definito il bisonte, il caterpillar, il cavallo pazzo.
Persino Cenerentolo quando – 14 ottobre 1984 – si fece cinquanta metri col pallone ai piedi: un assalto all’arma bianca.
Lo juventino Pioli prova a stenderlo sfilandogli lo scarpino destro: lo tampona ma niente, lui continua nella corsa. Accelera. Entra in area, sterza mandando gambe all’aria Favero che casca per terra, si accomoda il pallone col sinistro e poi boom, con il piede nudo spara una cannonata all’angolino, Tacconi a guardarlo come alieno dentro un Bentegodi diventato arena. Faceva breccia nella porta e nei cuori. Per chi l’ha visto e per chi non c’era, Preben Elkjaer Larsen, centravanti danese che inseguendo una chimera avrebbe trascinato il Verona allo scudetto. Quella banda suonava il rock, e il rock lo suonava pure quella Danimarca del 1984 e chi quel giorno c’era, quel giorno non l’ha mai dimenticato.
Incastonata tra foreste e fiumi, incastrata al confine tra Francia e Germania, Strasburgo è l’epicentro dell’Alsazia, è una città che guerre, battaglie e domini li ha tragicamente vissuti, dall’epoca dei romani passando per la Prussia fino al secondo conflitto mondiale: è un simbolo divisorio e doloroso e anche per questo fu scelta prima come sede del Consiglio d’Europa, poi del Parlamento Europeo e infine dell’Alta Corte di Giustizia. Non è una capitale eppure è al centro dell’Europa unita, stavolta pure centro di una sfida che promette di essere battaglia. È il 19 giugno 1984, allo Stade de la Meinau si sfidano due nazionali per un solo domani. È l’ultima giornata del girone, l’ultimo atto del primo turno, è anche l’ultimo precedente in una fase finale dell’Europeo prima di oggi, 17 giugno 2021. Belgio-Danimarca, oggi come allora.
È il 19 giugno 1984, l’estate bussa alla porta e gli occhi azzurri sono altrove. I campioni del mondo di Bearzot non partecipano, eliminati senza appello nelle qualificazioni dalla Romania allenata da Lucescu e dalla Svezia dell’armadio Stromberg: l’Italia calcistica è avvolta, è rapita, è ammaliata dall’affaire Maradona, il Napoli tratta col Barcellona per il “Pibe de Oro”, il colpo del secolo che troverà felice epilogo un mese dopo, dopo intere notti incollati alle tv. Lo sguardo distratto va agli Europei, alla Francia padrona di casa e di un gioco frizzante: Tigana, Giresse, Fernandez il triangolo delle meraviglie rifinite da “le roi” Platini che con una tripletta alla Jugoslavia ha intanto regalato qualificazione e primato del girone ai bleus, premessa del trionfo finale.
Appaiate a due punti, nel girone ci sono pure Belgio e Danimarca: i “diavoli rossi” però hanno il vantaggio della differenza reti, nella notte di Strasburgo anche un pareggio andrebbe bene. Li guida lo stratega Guy Thys, quattro anni prima all’Olimpico sconfitti in finale da un gol del panzer division Horst Hrubesch a un minuto dalla fine dopo aver eliminato l’Italia di Bearzot priva di Paolo Rossi, squalificato per il calcio-scommesse.
Squalificati per la compravendita di una partita (Standard-Waterschei) una serie di assi tra cui Gerets, Millecamps, Meeuws, Preud’homme, Vandersmissen: tutta la difesa. In porta però c’è Pfaff, a centrocampo la classe di Vercauteren lega la legna degli “italiani” Coeck e Vanderycken al talento del diciottenne figlio di emigranti italiani Vincenzino Scifo, davanti si muovono il caschetto biondo di Ceulemans e la “Scarpa d’Oro” Vandenbergh. Squadra rognosa, attaccaticcia, abile nell’occupare tutti i settori del campo con una ragnatela mobile, a proprio agio quando non deve far giocare l’avversaria. Esperienza e due risultati su tre: il pronostico quella sera pende dalla sua parte.
L’avversaria è la Danimarca che in Francia ci è arrivata eliminando a sorpresa ma con merito l’Inghilterra, vincendo con un gol di Allan Simonsen, un furetto imprendibile che dopo un “Pallone d’oro” e il Barcellona, a 32 anni è tornato a giocare in patria: però nella notte del destino non c’è, s’è fratturato una tibia nella sfida inaugurale con la Francia. I danesi li allena un sergente tedesco: Sepp Piontek ha forgiato la nazionale pescando i giocatori all’estero, quasi tutti giocano lontano dalla Danimarca. Michael Laudrup e Berggreen in Italia, Moelby, Nielsen e Olsen in Olanda, Busk, Martin Olsen, Bertelsen, Arnesen, Brylle, Elkjaer in Belgio, Rasmussen e Lerby in Germania, Lauridsen in Spagna. Come un profeta, ha allenato i suoi discepoli: li ha allenati alla disciplina, al rigore, al gioco d’attacco. Incapace di difendersi scientificamente, la Danimarca attacca, soprattutto all’inizio, punta a segnare subito per poi sfruttare il contropiede: gli attaccanti sono fisici e veloci, i centrocampisti hanno corsa e talento, uno solo è ottimo difensore. È l’anziano libero Morten Olsen, che però si muove davanti a due portieri (il titolare non esiste) almeno tremebondi.
E all’attacco ci va, lancia in resta nella sera del 19 giugno a Strasburgo. Ha soltanto un risultato per passare: deve vincere. Attacca a testa bassa subito, il Belgio ci va presto a nozze. Segna due volte. Prima Ceulemans e poi Vercautern, la sfida pare già finita alla fine del primo tempo. Non ci fosse un sussulto, un assalto, l’ennesimo dei vichinghi biancorossi. Preben Elkjaer Larsen si getta come avesse una baionetta nell’area avversaria, lo stendono, il tedesco orientale (la Germania dell’Est esiste ancora) Prokop fischia il rigore che quel motorino sempre acceso di Frank Arnesen trasforma centrando l’angolino. Restano 45 minuti per ribaltare il destino, per afferrare una qualificazione che sarebbe un’autentica impresa. La Danimarca di gol però deve farne altri due. Mica facile: il Belgio è squadra rognosa, Grun e Clijsters sono difensori di talento, Plaff è portiere coi guanti, basterebbe uno sbilanciamento e zac, i “diavoli rossi” impacchetterebbero il regalo.
Serve coraggio, serve crederci, servirebbe un gol a togliere certezze a quei dannati diavoli. Intanto Piontek sfila un difensore inserendo un centrocampista: entra Brylle e proprio Brylle segna appena trenta secondi dopo. È il gol del pari. Non basta ancora ai danesi, spinti dai tifosi allo stadio e spinti dai neutrali che, chi allo stadio e chi da casa, hanno ormai scelto la squadra per cui tifare. È la partita più intensa e spettacolare del campionato: a metterci la firma ci penserà quel matto, quel cavallo pazzo, quel centravanti che si muove come un bisonte. Sgraziato e furente, eppure tremendamente efficace. Devastante. A cinque minuti dalla fine addomestica col destro un pallone a quaranta metri dalla porta, s’invola mentre due avversari gli si parano davanti. Salta il primo, salta il secondo allungandosi il pallone sulla destra, entra in area mentre Pfaff gli va incontro. Lo salta con un pallonetto quasi radente. Una volta dentro quel pallone, dentro uno stadio in estasi, lo sommergono i compagni. Preben è senza fiato, è steso e felice, quando si rialza ha lo sguardo del birbante che sa di averla combinata grossa.
È semifinale, contro la Spagna che agli Europei ci è arrivata grazie a una qualificazione sospetta ai danni dell’Olanda, beffata dalla differenza reti per quel 12-1 rifilato a Malta, nove gol solo nel secondo tempo.
Dopo i tempi supplementari però il tabellone di Danimarca-Spagna dice 1-1, gol di Lerby e Maceda, dopo un palo danese e danesi ridotti in dieci. Si va ai rigori, i primi nove non sbagliano un colpo. Sul dischetto tocca a Preben Elkjaer Larsen: l’eroe qualche giorno prima ruzzola per terra, in lacrime. È l’errore che mette fine alla favola danese: otto anni dopo non ci sarà nella pagina più fiabesca degli Europei, vinti proprio dalla Danimarca che a quell’edizione non avrebbe dovuto partecipare, ripescata a dieci giorni dall’inizio solo per l’esclusione della Jugoslavia in guerra fratricida e guidata da Vilfort, il mediano tutto cuore diviso tra il prato e un letto d’ospedale, lì dove qualche giorno dopo si spegnerà la figlia, vinta dalla leucemia. Una pagina indimenticabile nata da quel seme piantato otto anni prima. Perché nel calcio nulla si inventa.
Lo sa bene il Belgio, che dal 2012 è nazionale in ascesa, dal 2015 sempre sul podio del ranking Fifa. Ai quarti nei Mondiali del 2014, ai quarti negli Europei del 2016, terzo ai Mondiali del 2018. Adesso va in caccia della consacrazione. È una nazionale guidata da un attaccante devastante, un bisonte inarrestabile in progressione che ha appena trascinato l’Inter allo scudetto. Si chiama Romelu Lukaku, ha un solo cognome eppure un po’ somiglia al quel Preben Elkjaer Larsen di trentasette anni fa. Anche lui quando gioca suona il rock. Anche lui è uno di quei centravanti che ti penetra nei muri, che fa breccia nella porta. In fondo anche lui viene a dirti che l’anima del centravanti non è morta.
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