Inciso di partenza, si cambierà repentinamente argomento. Promesso.
Questo, probabilmente, sarebbe dovuto essere il felice proposito del primo gennaio 1948. La Costituzione ha, però, un errore di fondo: è scritta dagli uomini delle macerie per gli uomini del divenire. Saperlo che poi, a distanza di poco tempo, le macerie sarebbero tornate ad essere pane quotidiano.
Italia – Austria, è il nostro ottavo di finale di questo Europeo itinerante e allargato. Un incontro affascinante, carico di aneddoti. Storie intrecciate che vanno dalle barricate delle Cinque Giornate, al fuoco di Solferino. Dalle prigioni di Pellico, al bianco accecante dell’armata di Radetzky. Dalla lunga marcia che cucì lo sciabordio del Piave, all’amicizia con Dollfuss.
Sarebbe una partita intrigante, se non fosse per la convinzione di esser figli – ancora una volta – di un Dio che indossa scarpe di cartone e sorrisi telecomandati. Qualcosa che, del resto, dissecca il calamaio e paralizza le sinapsi.
Tutto ciò non perché italiani, ma salernitani: ahinoi!
Così, mentre Gravina indossa l’abito buono e si rimira nei riflettori di Wembley, una delle venti sorelle della massima serie si prepara ad un campionato – chiamiamo le cose per nome e cognome – commissariato.
Gloria e onore ai generali, frutti maturi del processo di normalizzazione: né Garibaldi, né Cadorna, bensì Marchetti.
Nuvole nere si addensano – bisogna pur smaltire le delusioni e allacciarsi all’attualità – sul capo degli Azzurri.
La giocata più attesa, mai lo avremmo immaginato, sarà quella che intercorrerà fra le ultime note dell’Inno e il fischio di via: lo chiameremo l’inginocchio della discordia.
Cavalchiamo, indegnamente, l’epoca in cui le battaglie civili si combattono sul filo sospeso dell’algoritmo. L’odio a portata di clic – a meno che non trascenda in atteggiamenti squadristi – non è meno pericoloso. L’estirpazione del sottobosco xenofobo passa anche dai gesti. È consuetudine, ormai consolidata nell’Europa civile, inginocchiarsi poco prima del fischio d’inizio di una manifestazione sportiva.
La nostra Nazionale, presa sicuramente alla sprovvista (è questa un’esimente per i ragazzi di Mancini), non si è inginocchiata a ridosso dello start di Italia – Galles. Da lì le polemiche, fiumi di parole e attacchi all’arma bianca. Macigni sulla schiena di undici ragazzotti che, stando a quanto si mormora, non sono in grado di affermare posizioni nette. I gesti imposti dall’opinione pubblica, tuttavia, si svuotano del loro valore semantico. Gli Azzurri, pertanto, si apprestano a calarsi in un limbo pericoloso: qualunque sia la reazione verrà considerata errore. Disfunzioni della frammentazione ideologica.
Un gesto che, comunque vada, dovrebbe nascere spontaneo. Il silenzio non è lo sterrato da battere, la memoria di quel 25 maggio 2020 è già storia contemporanea: è uguaglianza e rivoluzione.
Giugno, infatti, non è solo il mese delle competizioni internazionali, dei primi bagni e delle ferie a un tiro di schioppo. Checché ne voglia dire l’italiano medio, è soprattutto il Pride Month.
Diritti civili che, alle nostre latitudini, incocciano con chi è sintonizzato sulle frequenze del febbraio ’29. Ancora oggi, infatti, considerata la ferma laicità dello Stato, il Vaticano prova ad esprimere concetti già retrivi al tempo in cui, dagli altoparlanti del PNF, esalava “Giovinezza” di Beniamino Gigli.
Consequenziale che, per ampie frange di conservatori, è di vitale importanza certificare il genere sessuale di cui ci si innamora. Come se un gioco di sguardi, poi, si possa prestare alla fredda modulistica di una “M” e di una “F“.
Convinzioni da burocrati incartapecoriti. O da frugoletti dell’asilo in odore di prima marachella.
Giudicate voi:
Ed ora – da bravi – posate la mano sul cuore, onoriamo la retorica patriottarda sull’eredità di Goffredo Mameli (eroe ventiduenne di cui si conoscono a malapena tre strofe).
E – dovesse andar bene – al triplice segnale del Signor Taylor spegnere i neuroni, please. Com’è che faceva?
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