La Epiphone Supernova griffata Union Jack ruggisce nelle mani del leone in estasi. Il rito orgiastico si apre sfacciatamente: The Swamp Song, è solo l’intro e già trema tutto. Poi entra il fratello. Occhiali alla Lennon e una Benson tra le labbra perfette. Il Profeta incede scazzato, è strafatto. Allarga le braccia, si consegna alla folla: la penetra con lo sguardo, sta letteralmente facendo l’amore con gli occhi di ciascuno di loro. La potenza di quarantamila orgasmi avvolge la notte che segnerà irreparabilmente quella generazione, gli Anni Novanta, la musica stessa.
Le Midlands. Il fumo dalle ciminiere volteggia in alto, confondendo piombo a piombo. Se non piove, promette pioggia. Primavera del 1996, i Fergie’s Fledglings stanno rovinando la vita a mezza Manchester. Quella dei sobborghi, sporca di fango, che ingoia birra e sputa miseria. Il Manchester City sta retrocedendo proprio mentre sboccia la Primavera dello United. Prospettiva orribile.
È il 27 aprile ed il Popolo Citizen si è riversato a Villa Park: l’impresa è disperata, la classifica piange ma cinquemila anime fiere sventolano il vessillo SkyBlue a Birmingham. Finchè c’è City c’è speranza.
Il primo tempo è un round ininterrotto: quarantacinque minuti di cazzotti al volto di Eike Illner. Le ginocchia degli ospiti, schiacciati nella propria trequarti, tremano assieme agli innamorati sugli spalti. Il City è alle corde e sanguina: ma resta in piedi. Nel secondo tempo, quasi per incanto, il sole straccia le nuvole e la storia cambia. Georgi Kinkladze vince la paura, Nigel Clough divora l’erba di sinistra, Uwe Rossler prende a danzare col pallone. Il Manchester City pianta le tende sotto il settore stipato di Mancuniani poveri, che piangono per non morire. Cross dopo cross, Niall Quinn smaltisce la sbornia e le prende tutte. Ad ogni corner, il sussulto del settore ospiti monta in assordante grido di battaglia. Si gioca ormai a campi invertiti, sembra Maine Road. Minuto 70: da sinistra -sempre da sinistra- l’ennesimo traversone della speranza. L’Irlandese con la 9 si avventa di testa ed invoca l’Arpa di Dagda: non prende la porta ma sbatte sulla faccia di Steve Lomas. Tre sponde, sfera in buca d’angolo. La marea dietro i pali esonda lo steccato claret e travolge il Peldicarota in un abbraccio disperato. Esultano e piangono. Non moriranno, non oggi.
Per l’Universo del Manchester City non è quello il giorno per varcare gli Inferi. Due di loro affrontano l’evento più importante della propria esistenza nell’unico posto dove ha senso vivere o morire, al cospetto di una distesa in adorazione: il primo pensiero va all’unico Grande Amore.
Never Going Down!
Sono le prime parole che rimbombano nella Chiesa Madre. Nel delirio collettivo, il primo pensiero va al Manchester City che l’ha appena fatta franca. Col City in trasferta, sabato 27 aprile 1996 Maine Road apre all’evento che segna l’epoca. Per chi ha avuto il privilegio, nulla sarebbe stato più come prima.
La miseria irlandese ha vomitato Thomas Gallagher a Manchester, assieme ai fratelli. Li detesta, detesta la sua stessa vita: a quelle latitudini reagisci al disagio con una pinta di lager -una si fa per dire- e la sciarpa del ManCity. Frequenta la Kippax, più che altro un’occasione per bere. Un giorno del ‘75 porta con sé il figliolo, Noel: il quale non vede nessuno dei cinque gol rifilati al Newcastle, dal basso dei suoi otto anni. Ma la baraonda è folgorante: amore a prima vista, non saprà più fare a meno del Manchester City. Trasmette la fede al fratellino Liam, col quale condivide la passione per la musica: cantano il disagio di Burnage in cui tutto è droga, violenza e degrado. Il successo pioverà su di loro, improvviso ed inevitabile come la pioggia da quelle parti. È la genesi della BritPop, che cambia i connotati alla generazione su scala planetaria, col nome che dopo quella notte assurge a leggenda.
In tutta franchezza, non conosco quali parole possano dipingere il concerto a Maine Road. Noel e Liam, cresciuti nei sobborghi ed allevati a pane e City, consacrano la propria esistenza nel Tempio Sacro ai Vecchi Dei avvolti dalla folla in adorazione. L’afflato che sovrasta la scena è mistico. L’intro finisce. Parte la scaletta. Parte il delirio.
Acquiescence
Non ricordo una band che, in una dato punto della carriera, avrebbe potuto far saltare su e giù in quel modo migliaia di persone sulla traccia d’apertura. Forse Gli AC/DC al Monumental, non lo so. Non era la stessa cosa, non poteva essere la stessa cosa. Nella casa dei Citizens, gli Oasis cantano nel nome dei Citizens. Novanta minuti di brividi, più recupero.
Lo 0-1 sul campo dell’Aston Villa regala ai Citizen una settimana di speranza, ma la sconfitta interna col Liverpool segna la condanna. Steve Lomas, portato in trionfo giusto sette giorni prima, infila l’autogol decisivo. Gran puttana, quella palla lì.
Quello degli Oasis a Maine Road più che concerto fu evento planetario: cui non seppe resistere il cantore che rese nobile qualsiasi fascia sinistra dei campi di Sua Maestà. Sebbene trafelato, non passò inosservato alla folla Ryan Giggs: intrufolatosi nella dimora dei rivali, non risparmiò il bagno della birra che gli fu lanciata appresso. Superbia in Proelio. Ex allievo della City’s School of Excellence, il Mago Gallese tornava per una notte dove tutto era cominciato.
L’apogeo degli Oasis, dominatori incontrastati della scena pop mondiale, coincise col momento più buio della storia del Manchester City, scivolato mestamente in seconda e poi terza serie. I fratelli Gallagher si riscoprirono belli, ricchi e famosi: hanno avuto tutto ma tutto è niente, quando la tua squadra fa schifo. Non hanno mai smesso di amare il Manchester City.
Amore tossico forse ed inesplicabile sicuro: chè se la tua squadra non t’ha fatto star male, non avrai mai amato la tua squadra di calcio.
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