Storytelling

La regola Di Bartolomei

Tempo di lettura: 3 minuti

L’immaginario popolare è un calderone che dentro ci si può trovare di tutto. Partiti da luoghi diversissimi, uomini, donne, cibo, musica, passano da lì e rinascono simboli. Per questo, la sintesi cinica può sembrare provocatoria.

Agostino Di Bartolomei è come la pizza.

Un marchio che nessuna major ha registrato e quindi tutti possono usare, a volte osando, spesso abusando. Un brand popolare che mette tutti d’accordo. Tutti sì, persino i laziali. E, certo, la piena disponibilità getta sul nome ulteriore polvere di magia. Ma la pizza passa per mani diverse, giunge a palati di ogni tipo. Corri il rischio che qualcuno ci metta sopra fette di ananas. Un rischio che si corre anche quando si parla del Capitano. Che si fa, allora? Non ne parliamo? Parliamone sì, col pudore che merita l’uomo prima del simbolo. E con pudore altro, ché altre penne, altri cervelli si sono dedicati all’impresa.

Un limite che —consapevolmente temerario— ho già ripetutamente varcato. Non dovrei averne timore. Ma, alla vigilia di questo Salernitana-Roma, rispondo alla sollecitazione come un cucciolo di cane che si nasconde in un angolino dopo un “cattivo servizio”. Da quell’angolino non vorrei uscire. Troppo forte l’odore di banalità, il retrogusto avariato del già scritto. Farmi uscire da lì? Bisogna fare come si fa coi cuccioli: una parola buona e una carezza.

Agostino me ne ha mandate tante, in questo tempo. Un tempo che va ben oltre la stretta dimensione di un calendario e della permanenza nella mia Salerno. Un tempo che non ha messo il silenziatore alla cronaca che lo ha riguardato e lo riguarda. Ne ha —credo, spero— centrifugato le scorie e spremuto il succo. 

Se, per uno strano scherzo dell’immaginazione, un ragazzo —prima di domenica— mi chiedesse perché srotolare quello striscione, “Guidaci ancora AGO”, perché cantare ancora “Oh Agostino, Ago Ago Ago Agostino gol”, io non saprei fornire una risposta definitiva. Potrei dargli la mia.

Agostino Di Bartolomei era un uomo nel pallone. E se vi salutassi adesso, con questa frase, lascerei un manichino da vestire in mille modi possibili. Un marinaio che ha perso la rotta? Un moderno supereroe in un ambiente corrotto? Vi presto la centrifuga.

Come tutti, Di Bartolomei amava il calcio. Quello giocato —e ricordo la cura maniacale nel descriverne i particolari nel suo bellissimo manuale— sì, quello parlato non direi, ché pur non avendolo conosciuto non credo amasse il fritto rancido. Come pochi, il calcio sapeva giocarlo. Come pochissimi, era frase di senso compiuto. Con il cervello come soggetto, il corpo predicato verbale, le imprese calcistiche complemento.

Macchina fuoriserie con ingranaggi sofisticati, che un giorno lo lasciarono a terra. Non come James Dean, non come Ayrton Senna. Ma come succede per tute le icone che non vediamo invecchiare, finisce inevitabilmente su magliette e bandiere. Bene, benone, purché abbia un senso. Il senso mio, il non richiesto parere è: amatelo di amore puro come quello che lui nutriva per il pallone.

Troppo facile? Pensateci, pensateci bene e rispondete con sincerità. Semplice non è affatto. È tanto difficile anzi, che questa forma di amore vorrei protocollarla. Domenica, e dopo, la “regola Di Bartolomei” mettetela nello zaino, vi farà buona compagnia. E vi starà a fianco se, in nome del pallone, vedrete sentimenti e percezioni diverse.

Le fette di ananas no, quelle evitiamole.

Giovanni Perna

Nato nel 1964, professione ortopedico. Curioso ma pigro. Ama svisceratamente Salerno e la Salernitana. Come sempre accade quando un amore è passionale, è sempre piuttosto critico nei confronti di entrambe.

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