Ê proprio di attese che si nutre Salernitana – Roma: quelle che ti spingono con la testa sott’acqua, poi ti concedono una sorsata d’ossigeno; attese che, diluviando, riparano.
Per Salerno – mani sulle tempie, occhi al cielo e sospiro di sollievo – è trascorsa un’altra settimana. Tortuosa è dir poco, più che altro gonfia: di spigoli e spine e promesse e mance e marcette e sputi e spintoni e discussioni. Non ci si annoia mai, è teatro a cielo aperto: aspettando Godot da chissà quanto tempo.
Fortuna che c’è una campagna elettorale alle porte. Il brulichio di questi giorni, tutto sommato, è appendice dell’assurdo: anche la Salernitana – miserere di noi – è finita nel vortice.
Mero argomento – pretesto – fra una ringhiera divelta, scarafaggi in topless e specchi di mare marrone. Anche Lei, con le sue centodue primavere, usata per racimolare consenso.
La presentabilità dell’Arechi è la pietra angolare del dibattito: chi doveva fare non ha fatto e prova a far finta di nulla, chi avrebbe voluto fare – con la sola forza del pensiero, e delle parole – tenta di monopolizzare la scena.
Qualcuno, per queste calle, ha confuso l’attendere col procrastinare: l’attesa sta al tifoso, l’azione starebbe al Comune.
Ché di polvere sotto i seggiolini, finora, ne è stata spazzata troppa.
Perché mai intossicarsi, manca appena un giorno. Perché non godersi questa strana elettricità. Quella che, proprio quando la musica è finita, sconfina dai vestiboli alla cassa toracica. Quando l’ultimo amico va via e, sferragliando, imbocca tangenziali senza uscite.
Salernitana – Roma è anche lui – sì, è vero: era interista. Ma che gli vuoi dire?
Grande amatore e figlio di buona donna, che bisogno c’è di presentarlo? Mai schiavo dell’orario, grande amico del vizio e delle notti. Genio, poeta, maestro, menestrello, saltimbanco, autore, cantautore, attore. Tutto.
E poi, non scherziamo, c’è poesia d’amore più ruvida e romantica di questa?
Non è partita qualunque, fosse solo per quello sguardo che accomuna. Quello sparo nel maggio, quelle rondini in fuga nel mattino cilentano. Quel nome – breve, quasi soffiato – lega a doppio filo le genti: l’una di cielo, l’altra di mare; una eterna, l’altra pure.
Salernitana – Roma, comunque, mi insegnò tanto. Tantissimo.
Imparai – affacciato al loggione, ma figlio delle inferriate – che un centravanti deve essere cinico e fortunato, non bello.
Ricordo che indossava la 32 e, con l’aria da supplente di provincia, fu cattedratico modello.
Nome: Federico. Cognome: Giampaolo, l’antieroe. Cocciuto e affamato. Volenteroso, concesse centimetri di fronte alla classifica barattando la sua chioma tutt’altro che da copertina.
Imparai, soprattutto, che quando imbocchi la strada di casa, anche se caracollante, puoi far volare braccia, mozzoni di sigaretta e birre e arachidi. Il pallone che varca la frontiera dei legni, anche se sporco, è sempre l’anticamera di un’esplosione di popolo.
Di quelle giornate furibonde un solo colore, intenso, mi bruciava la retina. Non l’avrei mai più dismesso: il granata.
Quante cose non sapevo, quante altre non conoscerò mai. Eppure eravamo lì, noi tutti. Chi con meno anni, quindi meno pensieri, chi con meno tatuaggi, chi con più denti, chi con le vene ancora reperibili.
Più di quanti saremo – saranno, sarete – domani. Indubbiamente.
Ché certe sensazioni si ripresentano prepotenti, sgomitano fra aorta e memoria ma non puoi riviverle. Allora è bene ormeggiarsi al piazzale, stare fuori per gridare rabbia e amore. L’interno è per i fortunati possessori di tagliando – maledetta lotteria da capienza dimezzata – o per i residui d’avanspettacolo proiettati al terzo e al quarto giorno d’ottobre.
Per coloro che, muniti di accredito e falsi sorrisi da sforzo, ti subiranno con disattenzione: impegno fra gli impegni, appuntamento di tornata, lavata di faccia e nulla più.
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