Il mio battesimo col grande calcio parte dagli scaffali di un non luogo, trattasi della rinomata — o del rinomato, il genere non mi è chiaro — Esselung*. Usiamo, paraculisticamente, lo schwa.
O la schwa?
Neanche questo so, ma di cercare non ho voglia.
Ché, tornando a noi, procacciarsi birra in un bar per berla al bancone — per chi popola da poco questa città — può costare un œil de la tête o un ocio de la cabeza. Mi sono calato un po’ troppo nella parte: un occhio della testa, insomma (la prima traduzione è gentilmente patrocinata da Google Translate, la seconda me l’ha servita Jerry Calà).
Assistere ad uno Spagna – Francia alla Scala del Calcio, comunque, non rientra nei canoni della quotidianità, almeno non per noi Salernitani: il doppio — anche triplo — carpiato in avanti compiuto da Gondo a Mbappè (mi tengo il primo tutta la vita, questione d’affetto) in meno di quindici giorni è merce per diottrie forti.
Mi perdo, tutt’altro che in forma letteraria (¡Mi perdo proprio!), solcando una delle tante bisettrici del capoluogo meneghino: queste strade non hanno capo, solo code. Fu così che circumnavigai la Storia dell’Arte: da Guido d’Arezzo a Giotto, passando per Buonarroti.
Sono comunque attento a non abusare di Google Maps. Un tempo si centellinavano acqua e razioni di cibo, oggi i Giga.
Ma, tant’è.
Utilizzo il meno possibile i miracoli della tracciabilità: un po’ perché non voglio sfigurare al cospetto dei pro-pro-pronipoti di chi conquistò nuove terre affidandosi alle stelle e alla cellulosa, un po’ perché — date le modalità di prevendita e prefiltraggio adottate dall’Uefa — il cellulare serve carico a palla: se non a palla, quantomeno al 25%.
La prima birra, intanto, scivola via leggera fra le anatre di Parco Sempione. Adulto (?!) fin quando non sento starnazzare, poi torno irrimediabilmente bambino.
Mi incammino che è tardi, “devo attraversare ancora tutta la città, si corr a per cia putess fa” (citazione Altissima ac Reverendissima).
Qua e là, comunque, inizia a comparire qualche tricolore in cui non riconosco me stesso ma le nombre sept della mia antichissima Lei.
Ma — bando ai sentimentalismi — per oggi ho deciso di lasciare il cuore nel fodero. È tempo di fare i conti col dilemma dei dilemmi: per chi faccio il tifo? Assodato che la terza componente — quella fischietto-cartellino-magliafosforescente(che ieri sera era azzurrina)-guardatastorta munita — non mi è granché simpatica: occorre schierarsi.
Faccio l’italiano? Cioè, no: sono italiano.
Mi schiero a convenienza, allora. Poco varrà la giacchetta double-face — ho scelto il versante bianco in luogo del blu, pare un po’ più neutro — in stile Pippo Franco.
Facciamo che chi mi offre per primo un tridente Poretti-Peroni-Menabrea entra nelle mie grazie? Aggiudicato.
San Siro, ad ora, è lontana: a dividerci una schiera di grattacieli. È il nuovo castello incantato dei Ferragnez, dicono. Ché il Bosco Verticale, già deposto, è diventato troppo kitsch. L’Italia, intanto, sta giocandosi la finalina col Belgio ma non mi interessa più di tanto. Non cale ai protagonisti pluri-pagati che fingono defezioni, figurarsi a me.
Anzi, aver acquistato il biglietto a scatola chiusa preserva dalla ressa e aumenta il fondo cassa.
Già, la sera della compera erano chiari data, orario e luogo: non le bandiere. Comparse, magicamente, a scaglioni sulla fantastica Uefa Mobile Tickets.
Il mio appuntamento col futuro dista appena poche ore, sale l’ansia.
Non per la partita, chiaramente. Uno che esce indenne dal Penzo e dal Partenio può ritenersi immune anche all’ecatombe nucleare.
No, l’ansia è per controlli e regolamento d’accesso (pare un compendio di Diritto Penale). Ho misurato pure col righello le dimensioni — non fate pensieri sporchi — del mio zaino che, colpa della geometria, non pare sia formato A4.
Fatto sta che le tasche sono piene all’inverosimile e sembro un simpatico taccheggiatore. Non introdurrò, altresì, sostanze illegali all’interno della struttura; anche se in effetti potrei ripescare il sempreverde: “Giurin giurello Signor Brigadiere, lo tengo tutto in capa”. Ma non mi sembra il caso.
Balbettante più del dovuto, la vescica ben più del tratto vocale, ho già conosciuto anfratti e bagni chimici della Milano Ovest: l’età avanza e trattenersi è scelta poco saggia. Non mi mescolo, per ora, alla confusione dei cugini d’oltralpe e d’oltre oltralpe. Troppe parrucche e travestimenti: per me il Calcio è Passione, non Carnevale.
L’atmosfera è amichevole, quasi rugbistica: strano per chi, come me, è abituato a guardare in cagnesco anche il proprio riflesso nello specchietto retrovisore. È una festa di popoli e tra popoli, vi risparmio il panegirico sulla sportività: per me Sport e Calcio restano materie inconciliabili, lunga vita a chi ringhia e sfotte.
Scruto la folla dall’obiettivo verdognolo di una Tennent’s, serata perfetta per lasciarsi ammaliare da una neutralità mai provata. Ho deciso: non tifoso, bensì spettatore.
Si aprono i varchi e il secondo dubbio mi assale: entro e mi accomodo — mai vista una partita da seduto — o perdo tempo al baretto dell’antistadio?
Risposta facile per chi mi conosce.
Tutt’intorno è una Babele: fra Marsigliese e Marcha Real mi sintonizzo — in capa a me — sull’Inno alla Gioia del Maestro di Mercatello. Sono pur sempre un pisciajuolo al fronte: in nettissima minoranza — rapporto 1 a 36.999 (sicuramente meno)— ma vabbè, pazienza.
Iniziano ad ammiccare i riflettori, appollaiato sul terzo anello rosso con una barriera di plexiglass sul muso — ecco cosa intendevano per visuale ristretta — e il verde sfavillante a dodici chilometri di distanza. Decido di spostarmi, l’idea del posto fisso non mi ha mai nemmeno sfiorato (ma proprio l’idea della fatica in sé, ma questo è un altro capitolo).
Ora sono un po’ più su, senza plexiglass, mentre il campo si spalanca in tutta la sua imprevedibilità: è solo erba e gesso, pare.
Puntini indefiniti iniziano a passeggiare per il prato, 18.000 seggiolini più in basso dovrebbe esserci anche Ceferin: il grande odiatore della SuperLega, dicono.
Il riscaldamento dei portieri, mio feticismo infantile, dopo tanti Squizzi, Terracciano, Sestito, Prisco e Botticella mi ha riservato Hugo Lloris: me lo farò bastare, che dite?
Mai visto un torello — ciuccio in mezzo per i meno studiati — a queste velocità, né tiri in porta così taglienti e precisi.
Abbiate pietà di me, sono solito urlare “Olè” per una conclusione meno sballata della media: inizio ad avvertire una punta punta di nausea. Sono davvero idoneo a quel che definiscono “grande calcio”?
Mah! Questi livelli non m’appartengono, tutto troppo perfetto: i primi della classe, del resto, li ho sempre schifati.
Il punto focale è che la Salernitana non me la immagino adatta a questi palcoscenici, neanche io se vogliamo dirla tutta.
Certo è che il 4 dicembre tornerò alla Scala. Ma, indiscutibilmente, indosseremo gli stracci della Cenerentola di provincia:
Regina per noi, impalpabile fiammiferaia per altri. C’est la vie.
Eccoli gli inni Nazionali, anche un arido come me — solo per questa sera — è capace di provare qualche brivido:
a letto senza cena!
Di questo contesto, in realtà, invidio una cosa sola: la macchina telecomandata che porta il pallone a centrocampo.
Avrei fatto follie, vent’anni fa, per custodirla nel garage della mia cameretta.
Un fischio secco, San Siro trattiene il fiato poi inizia a tambureggiare. Qualche ragazzino dimostra di capirne poco, chiama Dubois “pippa al sugo”. Sorvolando sul lessema, meno ficcante del nostro “pugnetta“, mi sa che è meglio stare zitto: se gli proponessi di scambiarci abiti e fede per mezza settimana si impiccherebbe sotto la prima trave disponibile.
Quel che per tutti è inizio, comunque, è la fine di questo racconto. Volevate, magari, la cronaca della partita? L’esito? Il tabellino? Non lo troverete a margine, gente più qualificata di me vi renderà il pane che io non so impastare.
Come concludere? Adieu, Hasta luego o — più semplicemente — Statv buon.
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