Esponi pure la tua mercanzia, il tratto vocale.
Ti danni, maledici il giorno in cui sei nato: non sai più se il tuo cuore è sincronizzato in hertz o in caselli d’autostrada.
Anche Milano è andata, dicembre ha il suono liquido dell’aurora: è asfalto e fogliame, è morte fra trasversali e fili d’erba, vita ostinata dietro il plexiglass.
Se misurassero l’amore in metri, la salute in portafogli e il disprezzo in ore avremmo plotoni di premi Nobel per la fisica.
Ancora oggi, come ieri, identico e spiccicato a domani. Faccia a faccia con la data, l’ennesima: la rivelazione di due topi di biblioteca e qualche zoccola di laboratorio ci relegherà a mera casistica, unicum per il campionato italiano.
È passato il ciclone rossonero pure quello azzurro — l’Empoli, si intende — e siamo ancora qua.
Stronzi noi che spendiamo voce laddove regna indifferenza.
Almeno questo, per fortuna, non puoi togliercelo: mescolando anima e diottrie, capovolgi il verbo e il risultato è sempre quello.
Loro perdono, perderanno ancora.
Ha perso Fabiani e le sue comari, Lotito e le sue puttane. Non perdo io, non perde la mia gente.
Liberatela e, senza mezzi termini, buttate il sangue. Se non quanto me, almeno un terzo. Vi peserà, eccome.