Tiziano Marelli, giornalista professionista dal 1991, milanese di nascita, nerazzurro nel cuore. Già inviato sportivo del quotidiano il Manifesto e poi del quotidiano Reporter, oltre che dell’emittente televisiva Telelombardia.
Dal 1992 al 2000, ha lavorato agli uffici stampa, relazioni interne ed esterne del Gruppo Fininvest per Publitalia, Milan Athletic Club e Standa, Blockbuster e Toys Center, curandone anche i rispettivi house organ aziendali. Responsabile della comunicazione e dell’ufficio stampa del circuito televisivo 7 Gold, realizzando – nello stesso periodo – anche il progetto editoriale e giornalistico – e di conseguenza la direzione – del periodico trimestrale Print Buyer per conto della società editoriale Il Poligrafico.
Fra le altre collaborazioni, scrive per il mensile L’Europeo di sport, misteri italiani e cronaca nera.
Alla fine del 2011, insieme con il cantautore e amico Claudio Sanfilippo, ha pubblicato il libro “Fedeli a San Siro”, edito da Arnoldo Mondadori per la collana Strade Blu.
Il turno di Campionato, questa settimana, vive uno scontro testa-coda della classifica. La Salernitana ospita l’Inter: come “vedi” la partita?
Comunque finisca, lo scontro mi procurerà dolore. Perché in Italia la Salernitana è la mia seconda squadra “del cuore”, per una serie di ragioni. Forse andrebbe bene un pareggio, ma è certo che uno stop della mia beneamata rappresenterebbe un risultato troppo negativo in funzione Scudetto, quindi in fondo non me lo auguro completamente. Il cuore è diviso calcisticamente quasi a metà, ma non del tutto: una minima “pendenza” verso la mia squadra, persiste e sono certo che mi si capisce…
Dici che i granata sono la tua seconda squadra: come mai?
Il tutto è cominciato da un episodio particolare, vissuto appena prima della partita che si giocò fra le due squadre all’Arechi, ventidue anni fa. Credo fosse la sera prima dell’incontro, ed ero a cena con il mio amico Primiano. Insieme a lui c’era un ragazzo – sono passati tanti anni e lo eravamo, ragazzi, allora – collega di lavoro e tifoso della Salernitana, ma il termine mi parve riduttivo subito dopo qualche frase che ci scambiammo. Fu una rivelazione. Quando mi spiegò cosa significava “essere” della Salernitana mi si aprì un mondo. Tutti noi che amiamo il calcio ci consideriamo tifosi, ma il suo approccio era completamente diverso. Si percepiva che viveva quel suo stato come qualcosa che faceva parte della sua pelle, era assolutamente compenetrato nella suo essere quasi si trattasse di una religione, una ragione di vita. Mi parlò del “muro” granata allo stadio, dell’importanza assoluta che ricoprivano le imprese della squadra della sua città, per lui e per migliaia e migliaia di altri come lui. Si trattava di qualcosa che non avevo mai percepito prima, tanto era evidente. Parlava della passione di una città intera per chi scendeva in campo con quella maglia, della gioia e del dolore che ogni settimana significava essere vicini a quei ragazzi, di come questo facesse parte delle loro emozioni che si sarebbero poi riverberate nei giorni successivi in termini di qualità della vita, a seconda del risultato e fino al prossimo incontro. Semplicemente, “viveva” per la Salernitana, come fosse un parente stretto che si siede al tavolo di famiglia tutti i giorni, e che si ama incondizionatamente. Senza contare che quando gli dissi che ero nerazzurro nel sangue ma che lavoravo all’ufficio stampa del Milan mi guardò come se sarebbe mai stata nemmeno ipotizzabile per lui: piuttosto che lavorare per il Napoli, l’Avellino o la Cavese avrebbe preferito morire di fame. Niente a che fare con quello che era il nostro modo di intendere la vicinanza alle nostre squadre.
Quella partita per Salerno rappresentò un episodio storico, da raccontare ancora oggi come qualcosa di incancellabile. Tu come lo vivesti?
Beh, dopo quella cena la vostra vittoria mi sembrò la naturale conseguenza di tanto amore. Nell’Inter giocava – solo per nominare il massimo a disposizione, ed evito di nominare altre figure storiche nerazzurre in campo nell’occasione – anche un tal Ronaldo, e sulla carta non ci sarebbe dovuta essere storia, anche se i motori nerazzurri a quel punto della stagione erano quasi scarichi, e infatti il finale fu quello classico per un interista abituato ai rovesci che si presentavano puntuali, anno dopo anno e per tanti altri ancora. Come ben sapete e ricorderete con grande soddisfazione la Salernitana dominò, vinse 2 a 0, vi annullarono anche un gol, e noi facemmo una misera figura. Ma mi dissi che non poteva finire che così: era la logica conseguenza della passione che mi aveva trasmesso quel ragazzo aprendomi un mondo sconosciuto. Mondo che poi ho avuto modo di conoscere meglio più avanti negli anni, quando venni invitato nelle due occasioni in memoria di Agostino Di Bartolomei, un onore che ha reso indelebile la mia vicinanza alla città e alla squadra. Un altro pezzo di storia personale che mi fa sentire la vostra tifoseria vicina, tanto che il secondo risultato che vado a controllare dopo ogni turno di Campionato è proprio quella della Salernitana. E purtroppo quest’anno è una sofferenza: ho “goduto” molto di più l’anno scorso, con la cavalcata che ha portato la squadra in Serie A. Ora mi sembra una tortura ingiusta, demerito di un trust ridicolo e di una dirigenza da barzelletta. Spero che Lotito – dopo la scoppola per la manca elezione in Senato: ho gioito assai – se ne vada al più presto, e con lui Fabiani (mi tengo al corrente, per quanto possibile). Vivo più o meno – anche se forse può risultare troppo intrusivo rispetto ai vostri patemi d’animo ben già giustificati – quello che senz’altro vi provoca un dolore del tutto ingiusto.
Non sei mai stato all’Arechi. Pensi che prima o poi succederà?
Me lo auguro fortemente a ogni inizio di stagione. Potrei così sfoggiare la sciarpa della Salernitana, che custodisco nel punto più alto – insieme a quella dell’Inter – della mia bacheca dedicata alle sciarpe del calcio, che ormai sono più di un centinaio, raccolta che ho cominciato proprio con quella granata. E chissà se quando succederà non mi capiti di incontrare quel ragazzo, ormai uomo fatto, di quella sera di ventidue anni fa. Lo riconoscerei subito: aveva occhi azzurrissimi un viso tondo e un sorriso inconfondibile. Non ho nessun dubbio che sia lì ogni domenica, adesso come allora, in mezzo a tutti voi.