Agarren a ese Mono!
Tutti i giorni la stessa storia: ne han piene le tasche, al Colegio Manuel Belgrano. Gambe veloci e faccia da schiaffi, Hugo è un bambino che gioca a pallone meglio dei grandi. È cresciuto in un quartiere che ovunque sarebbe città ma non lì, interminabile dipanarsi di case e strade ed altre case, dove non fa mai veramente notte: infinita Buenos Aires. Villa Moreno è disordinata mescolanza di terreni incolti e case di campagna, brutalmente avvinta da negozietti scarabocchiati nel legno e recinti per bestie macilente.
È un bravo figliolo, scapestratello ma non fa male a nessuno. Nella fanghiglia, tra partitelle infinite e rane da acchiappare, ha imparato a dribblare gli ostacoli e schivare le regole. Pure in campo: sormonta gli avversari come alberi, rotolando via sulla sinistra senza perder l’equilibrio. Una scimmia col talento del diez. Lo hanno preso al Colegio: è forte assai ma dà il tormento a tutti. Al povero Juanito hanno nascosto la bici e da due giorni non si trova. È in corso l’allenamento e Juanito è in campo quando l’azione viene interrotta da quella bici che sfreccia a centrocampo: ovviamente, la monta Hugo. Fermate quella scimmia, qualcuno urla. Battezzandolo per il resto della carriera. Da allora, per tutti, Hugo diventa El Mono.
Wing Izquierdo dicono di lui, nella cadenza con la quale cantano sensualmente ciascuna sillaba. Affronta le partite con la malsana convinzione che nessuno, in definitiva, possa realmente fermarlo. Uno così, da sempre tifoso del Boca Junior, non può finire che alla Bombonera.
Dove, un bel giorno del 1981, atterra l’extraterrestre che ha già sconquassato l’immaginario futbolista rioplatense. Alle spalle di Hugo agirà per una stagione, una soltanto, Diego Armando Maradona. Pagato già per l’epoca uno sproposito, El Pibe mette piede in uno spogliatoio con più veterani che appendiabiti. Ché senza huevos, da quelle parti, nemmeno ti spogli. La leggenda narra di sguardi sottecchi, paroline masticate, mezze gelosie.
La gelosia nel vestuario è serpe che striscia di nascosto e va schiacciata. Con la Vittoria. Assurge allora a leader il ragazzo di Moreno: non è un senatore, ma non è mai stato propriamente giovane. Chiama Diego in disparte, lo fissa, riconosce le Stimmate e prende la parola.
Non dobbiamo essere amici. Ma in campo io morirò per te. Sei il più forte: dimostralo. Conduci il Boca al titolo. Fallo ed io chiamerò mio figlio col tuo nome: la mia parola è sacra.
È il 2 agosto 1981: Los Xeneizes si giocano col Ferro Carril Oeste il Titolo Metropolitano e fidati: da quelle parti, fa la differenza tra la vita e la morte. Partita brutta, sporca, ci si picchia e basta. Di quelle che non sblocca nemmeno il Padreterno. Appunto.
Maradona parte dalla sua metà campo e stupra la mediana avversaria. Senza guardare, stende la coscia sinistra -benedetta dal Barba– e schiaffeggia d’esterno la palla, amante languida che mai nulla gli ha negato. La traiettoria passa da parte a parte le budella della retroguardia del Ferro e muore sul sinistro del Mono. Quello che succede dopo lo descrive il sommovimento della Doce alle spalle della rete che si gonfia. Più che esultanza, è quadro impressionista ritraente la Mistica del Rio de la Plata.
Il Boca Junior è Campione.
Le strade di Diego e del Mono si separano, ma nel 1988 Hugo diventa padre. La prima chiamata è un’intercontinentale, destino Napoli.
Sono Hugo, Hugo Perotti. È nato. È maschio. È Diego. La mia parola è sacra.
Gli occhi degli Argentini trattengono bellezza con voluttuosa gelosia. Il figlio di Hugo, per quanto bravo, non avrebbe mai eguagliato l’Eroe del Metropolitano ’81. Forte sì, ma per lui sarebbe bastato il diminutivo: e così sia.
Figlio del Sud del Mondo, non potrà che sentirsi a casa.
Benvenuto a Salerno, Monito.