Ci eravamo lasciati con le Notti magiche, la manona di Gigio su Saka. Football’s coming home che diventa It’s coming to Rome, la pastasciutta di Bonucci, la gioia di un trionfo a spezzare il dolore della pandemia.
Di quell’undici luglio resta però anche una macchia. Quella di Jorge Luiz Frello Filho, alias Jorginho, rappresentata dal rigore calciato tra le braccia di Pickford, circa un minuto prima del grido di gioia.
Un brasiliano d’origine, un oriundo, proprio come Emerson Palmieri, ex compagno al Chelsea e padrone della fascia sinistra della spedizione in Inghilterra. O come Joao Pedro, simbolo della classe operaia pallonara che da Cagliari trova i primi minuti in azzurro spostandosi sull’altra isola.
Lo fa a Palermo, otto mesi dopo Wembley. Giovedì ventiquattro marzo, stadio Renzo Barbera. È Italia-Macedonia, semifinale dei playoff per l’accesso ai Mondiali. Quelli in Qatar, da giocare in inverno. Una cosa senza senso. Proprio come questa partita, che nel più razionale degli scenari non avrebbe avuto motivo d’esistere.
Il destino, evidentemente, non era del medesimo avviso. Chiedere a Jorginho, che al perdonabile errore di Londra ne ha fatti seguire due imperdonabili. Entrambi contro la Svizzera, entrambi dal dischetto, prima a Basilea e poi a Roma.
Quella stessa Svizzera – a proposito di destino – alla quale avevamo rifilato tre palloni qualche mese prima. Il destro di Jorginho smette però di essere infallibile, ed ecco che passa la magia. Aggiungeteci due pareggi sciapi contro Bulgaria e Irlanda del Nord, e il gioco è fatto.
Gli spareggi arrivano, e il copione della vigilia viene rispettato: noi giochiamo, loro rinculano, si immolano e raramente si affacciano nella nostra metà campo. Insomma, fanno una partita di castoriana memoria. A ben pensarci, però, la scaletta non viene rispettata del tutto: di mezzo c’è sempre il beffardo ruolo del destino.
Che, dopo il doppio errore del rigorista migliore al mondo, si diverte a togliere i pezzi dal puzzle strada facendo. Prima il crociato, che ferma il calciatore italiano più in forma del momento. Quell’esterno che a Wembley era più volte finito al centro del villaggio, segnando due gol pesantissimi.
Poi tocca al terzino destro. Soldatino disciplinato, calciatore dallo straordinario rendimento, insostituibile tanto per Spalletti quanto per Mancini: l’infortunio arriva a pochi giorni dalla Macedonia. A proposito di terzini, dall’altra parte continua a mancare l’instancabile stantuffo romanista, quella Spina nel fianco che all’Europeo ha fatto ammattire qualsiasi dirimpettaio.
Non è tutto. Il turno successivo è quello del gigante lì davanti, diamante che illumina l’attacco neroverde. Risentimento muscolare, tocca fare a meno di uno dei migliori talenti emergenti del nostro calcio. Soprattutto, muscoli e centimetri che servivano come il pane in una partita bloccata come non mai.
La migliore occasione capita sul mancino di Berardi, altro neroverde, ed è forse la perfetta fotografia della serata: uno dei più ispirati (assieme a Verratti) sbaglia un gol già fatto, a porta vuota. Errore imperdonabile. La ripresa è un altro monologo: possesso palla, da destra a sinistra, da sinistra a destra, ma di spazi ne troviamo pochi e male.
Mancini cambia, ma la cura non funziona. Poi l’epilogo di una partita stregata. La palla gettata in avanti. Una sponda, un controllo di petto, un destro che trafigge Donnarumma. La Macedonia chiude con quattro tiri totali, due in porta, ma con un gol in più di noi.
Un eurogol, anzi. Porta la firma di Aleksandar Trajkovski. Proprio un ex Palermo, che torna nel suo vecchio stadio e ci condanna ad un altro Mondiale da spettatori. È l’ennesimo scherzo del destino, al quale segue l’ultima preghiera, incarnata dal tocco di Joao Pedro nel finale.
Gli occhi vedono il pallone dentro, ma la sorte – beffarda, per non usare aggettivi peggiori – non vuole. È una maledizione, che con il triplice fischio conduce al più amaro degli epiloghi, per chiudere questa storia intrisa di dramma sportivo ma anche di un’overdose di surrealismo.
Questo, come quello di quattro anni fa, resta un fallimento clamoroso. Forse ancor di più. In ogni caso, qualcosa di cui difficilmente perderemo il ricordo. C’è molto su cui riflettere: da Gravina a tutto il sistema, dalle giovanili alle infrastrutture, dal futuro di Mancini e del gruppo fino ad una Serie A che – come scrivono giustamente in tanti – è ormai un torneo di stranieri in Italia più che un campionato italiano.
O ancora, ci sarebbe da interrogarsi sulla mancanza di un centravanti di livello da oltre dieci anni, sulla necessità di naturalizzare calciatori dalle dubbie qualità, sull’esigenza di pescare in B e in C per l’under 21, sul perché il tridente che avrebbe dovuto portarci in Qatar sia quello della squadra attualmente nona in classifica in Serie A.
Di questo e altro parleremo, leggeremo e ascolteremo. Tanti processi verranno fatti, tante chiacchiere al vento animeranno salotti, trasmissioni e conferenze stampa. Il dato incontrovertibile, però, è uno solo: siamo fuori dal Mondiale per la seconda volta consecutiva. Otto anni per ora, dodici potenziali. E fa male, tanto. Anche perché, checché se ne dica, il destino ci ha beffardamente messo tanto del suo.