Lo so, il calcio argentino è il mondiale del ‘78. Il mondiale dei generali. Il mondiale delle grida, felici, dei tifosi che coprono quelle, disperate, dei desaparecidos torturati a due passi da dove si giocano le partite di calcio.
Ma Mussolini non capisce, forse, che il calcio gli avrebbe dato una mano? Lui che il lunedì marcia, il martedì nuota, il mercoledì va in moto o sulle auto da corsa, il giovedì si trasforma in cavaliere audace, il venerdì vola e consacra il sabato a scherma e pugilato? E Hitler? E l’Unione Sovietica? E Francisco Franco? Emilio Garrastazu Medici, il dittatore brasiliano, non strumentalizza a fini politici la vittoria al mondiale del 1970 che il Brasile vince in finale proprio contro l’Italia?
Quindi siamo tutti gente di mondo, lo sappiamo: da vicino nessuno è senza peccato. Allora, al netto delle implicazioni perverse che il calcio può avere, ecco cinque buone ragioni per tifare Argentina.
Calcisticamente parlando, non c’è popolo al mondo più equilibrista di quello argentino. Sempre in bilico fra l’essere, nello stesso attimo, a un passo dall’apoteosi e a un millimetro dalla tragedia.
Jorge Luis Borges diceva che l’argentino è un italiano che parla spagnolo. E, in effetti, l’Argentina è un pezzo d’Italia dall’altra parte del mondo. Nelle sue prime grandi imprese calcistiche scorre sangue ligure, fiorentino, cilentano, lucano. Quelli del Boca Juniors, in patria, li chiamano xenienses: genovesi.
É Maradona, naturalmente. Ma è anche la speranza di superare quel terribile equivoco che vuole Messi il più perdente dei vincenti. É la voglia di placare gli spiriti perfidi. Quelli che proprio di Messi, cioè del più grande calciatore del nuovo calcio che meglio ricorda i calciatori del calcio vecchio, attendono solo i passi falsi per ricordare al mondo come non sia poi tutto questo fenomeno. Insomma, è l’attesa che si compia la sua profezia.
Siamo nel 1967. Da più di trent’anni, in Argentina, il campionato se lo dividono cinque squadre. Sulla panchina dell’Estudiantes c’è un allenatore giovane, innovatore. Si chiama Osvaldo Zubledìa. I suoi pretoriani in campo sono due medici: Carlos Bilardo e Raul Madero. Zubledìa gioca per vincere, lo spettacolo viene dopo. Ha poche parole d’ordine: tattica, pressing, fuorigioco. Con lui si lavora duro, la pressione psicologica sugli avversari è un dogma, non è una possibilità.
L’Estudiantes vince il campionato, rompe il monopolio delle cinque sorelle, e l’anno successivo vince la Coppa Libertadores contro il Palmeiras, ne vincerà tre di fila. É come se la Champion’s League, oggi, la vincesse tre volte di fila il Club Brugge. Poi vince la finale di coppa Intercontinentale contro il Manchester United e diventa campione del mondo. L’Estudiantes è la classe operaia che va in paradiso, è la consacrazione del principio di possibilità, è la rivolta ante litteram contro tutte le Superleghe del mondo.
per questo imperfetto, non sindacabile, irrazionale
Il quinto motivo è Osvaldo Soriano e le sue storie di calcio, è il secondo gol di Maradona contro l’Inghilterra a Città del Messico nel ‘86, è l’eleganza filosofica di Jorge Valdano, è il fascino maledetto di Omar Sivori, è il sangue agli occhi di Daniel Passarella, è la forza selvaggia di Batistuta e il gioco un po’ anarchico di Mario Kempes, è la follia rigorosa e scientifica di Marcelo Bielsa, il triplete di Javier Zanetti, la garra (che è uruguaiana, ma rende l’idea) di Walter Samuel e del Cholo Simeone, è la geometria di Mascherano. É Ricardo Bochini, dolente e geniale, con quel suo modo di giocare che sembra un passo di tango. Bochini è uno che, se a Maradona chiedevano: «Per te chi è il più grande di sempre?», lui rispondeva senza pensarci: «Bochini».
É Galindez, il massaggiatore dell’Argentina, che, durante un ottavo di finale a Italia ‘90 offre da bere a Branco, uno dei terzini brasiliani più forti di sempre, ma nell’acqua ha svuotato una boccetta di Roipnol.
É il tifo. Un tifo estremo, oscuro e splendente come estrema, oscura e splendente é la vita.
È il derby di Buenos Aires fra Boca Juniors, la squadra dei poveri del Sud, e River Plate, quella dei ricchi del Nord. Un derby che può diventare realismo magico, dove perfino Alfredo Di Stefano può giocare in porta (è accaduto nell’estate del ‘49). Dove il Boca Juniors può giocare la partita come squadra di casa nello stadio del River Plate e il River Plate può essere la squadra che gioca in trasferta nel suo stadio (è accaduto nel 1984). Dove a pochi secondi dal novantesimo, le due squadre stanno pareggiando, un attaccante del River tira a colpo sicuro; la palla, diligente, segue i principi della Fisica ed è destinata a entrare, ma rimbalza su una zolla a pochi centimetri dalla linea di porta e finisce fuori (è accaduto nel 2020).
É la devozione di tutto un Paese verso la chiesa del Dio pallone.
Borges, ancora lui, diceva pure che gli argentini discendono dalle navi. Anche il loro calcio discende dalle navi. Una domenica del 1840, videro un gruppo di marinai inglesi che prendevano a calci una vescica di mucca gonfia d’aria e cercavano di farle attraversare una linea immaginaria tirata fra due sassi. Poi ci misero tutta la loro passione, la loro eleganza, insegnarono al calcio la parlata porteña e lo amarono. Lo amarono senza riserve, senza chiedere altro. E fu così che diventarono quelli di Maradona, Di Stefano, Messi e Riquelme.
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