di Gianfranco Coppola
Pasadena non è nulla di simile all’Italia e men che mai a Rio de Janeiro.
Era una giornata caldissima e per motivi di diritti televisivi la finale del mondiale del 1994 si giocò al Rose Bowl di Los Angeles, tempio del football. Ma lo stadio era stracolmo e c’erano più brasiliani emigrati negli Stati Uniti che italiani che, per la verità, già dai giorni del New Jersey e delle prime partite a New York denotarono una inaspettata disaffezione nei confronti della formazione azzurra che pure Sacchi aveva portato al mondiale con ambizioni di protagonista.
All’inizio fu un torneo drammatico: l’infortunio a Baresi operato al menisco a New York poi l’espulsione di Pagliuca, la sostituzione di Baggio nella seconda gara. Ma per il classico rotto della cuffia a Washington si seppe che si approdava al turno successivo dopo una non certo esaltante gara contro il Messico. Da allora i segnali sembrarono simili a Spagna 82, altra straordinaria impresa, perché Baggio proprio come Paolo Rossi risorse dalle sue stesse ceneri e cominciò a segnare goal di incredibile bellezza pari al suo talento e al suo animo nobile. La squadra meritatamente approdò alla finalissima a Los Angeles. Ma era fisicamente stremata. Baggio giocò la finale per onore di firma e qualcuno dice per esigenze di sponsor ma l’infortunio contro la Bulgaria lo aveva reso praticamente inoffensivo.
Sacchi non se la sentì di promuovere titolare fisso Gianfranco Zola, che pure era in gran forma. autentici arrosticini gli spettatori assistettero ad una partita non esaltante, tutt’altro.
Il Brasile del cucciolo Dunga, il capitano che mordeva le caviglie agli avversari, già conosciuto in Italia, non aveva quel giorno una particolare predisposizione offensiva, benché la coppia d’attacco Beto-Romario fosse di inesauribile classe e prolificità.
Il caldo era asfissiante, persino fermi in tribuna stampa, stretti come sardine, noi giornalisti gocciolavamo immobili e cercavamo rifugio in improbabili cappelli di carta come nei giochi da bambini e, ancor peggio, in Pepsi gonfie di gas che ci resero delle piccole mongolfiere.
La partita si trascinò stancamente fino a quello che tutti volevano, e cioè l’assegnazione del titolo ai calci di rigore: epilogo che consente allo sconfitto di dire che in fondo sul campo non aveva perso.
La storia è nota: sbagliarono Massaro Baggio e Baresi recuperato proprio per la finalissima in omaggio alla sua straordinaria serietà. Il Brasile portò così a casa il titolo, ma fu il mondiale delle polemiche, soprattutto, per l’esclusione per doping di Diego Armando Maradona che, recuperato per destare interesse intorno ad uno sport -il soccer- e ad una manifestazione che faceva disperare le agenzie di viaggio, che avevano comprato pacchetti di biglietti, non aveva, fino a quel punto, mostrato grande appeal. Tecnicamente un mondiale di scarso rilievo, con poche stelle e anche condizionate da infortuni.
È vero che domani è un altro giorno, ma quel giorno rimane indimenticabile: aver seguito per mesi e mesi il lavoro, il laboratorio di Sacchi avrebbe consentito anche a noi giornalisti di poter vivere il momento con la coppa tra le mani per la classica foto ricordo. Cosa che per chi fa questo mestiere, per amore, rimane un momento esaltante.
Intanto oggi in Qatar il Brasile c’è ma l’Italia no.
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