di Tiziano Marelli
Niguarda è oggi un quartiere dell’estrema periferia nord di Milano. Lo era anche nei primi anni 60 – periodo in cui è ambientata questa storia – ma in fondo, oggi come allora, si sente parte a sé stante del territorio, di qualsiasi territorio si tratti. Una sorta di porto franco, e per qualche buona ragione. Anzitutto perché è stata la sede nazionale del Cln, il Comitato di Liberazione Nazionale, quell’insieme di eroi di tutti i partiti di quello che poi diventerà l’arco costituzionale – dai monarchici in su – che quando la lotta contro il fascismo alzò l’asticella si misero insieme, coordinarono il da farsi e lo fecero bene. Pensare che non lo sa quasi nessuno, nemmeno tanti niguardesi e figurarsi quelli delle ultime generazioni, ma mi pare giusto divulgarlo ogni volta possibile e visto che ne ho l’occasione lo faccio anche qui, che a celebrare quegli eroi non è mai troppo né tardi. Poi perché era terra di confine, essendo il suo limite cittadino segnato dal dazio con la vicina Bresso, e quindi landa di traffici di borsa nera, durante la guerra e anche per un bel po’ di tempo dopo. Per esempio, ricordo che si andava oltre quella improbabile dogana a comprare la carne e anche altro perché – come assicurava la mia mamma – “di là costa meno”, e quando passavamo da una parte all’altra lei mi stringeva forte il braccio e faceva segno col dito sul naso di fare silenzio. Non capivo niente di tutta la vicenda visto che ero un bambino ma la cosa mi affascinava assai, ed è stato proprio quello che mi ha fatto sempre amare i confini da allora, e ogni volta che ne passo uno provo sempre i brividi e la pelle d’oca.
Il limite opposto di Niguarda, quello che punta verso una Milano che comunque – allora più di ora – era vista come un luogo oltrefrontiera (ecco che torna, il confine) di faticoso approdo, è l’Ospedale Maggiore, che in fondo l’ha resa famosa ovunque in Italia proprio per quel luogo di ricovero dolente. Però quasi nessuno sa, e ci mancherebbe altro, che quell’opera mastodontica – ancorché capace di incutere terrore a chi deve entrarvi come malato, come parente di uno di quelli o si trova semplicemente di passaggio – alla mia famiglia provoca anche un’incazzatura mai sopita nei decenni. Già, perché per costruirla, su ordine diretto di Mussolini furono espropriate le terre tutte proprio ai miei antenati, senza complimenti di nessun tipo, e quindi credo ci si possa capire. Unica concessione fu il mantenimento in pianta stabile della cascina dove sono cresciuti i miei bisnonni e nonni per parte di padre, e proprio anche il mio, di padre. Il complesso si chiama(va) La Peliscera, ma non chiedetemi cosa significa perché nessuno dei Marelli ha saputo mai dirmelo, e allora va bene così. Non ci sono mai entrato, ma mi è successo di guardarla da fuori qualche volta con un po’ di malinconia e commozione. A “noi di Niguarda” capitava di andare da quelle parti – che è aperta campagna, invece eravamo ormai tutti inurbati – quando si andava a far visita (solo di nascosto, ci mancherebbe!) alla Celestina, la nave scuola del sesso per tutti i ragazzotti di Niguarda di almeno sette generazioni, anche se quasi nessuno ha mai ammesso di essere uscito da quel tipo d’insegnamento con il diploma vergato dall’insegnante stessa in questione, al massimo aveva qualche amico che ne era stato beneficiato: niente di diverso dai social di adesso, dove per ogni cosa soprattutto se scabrosa si chiede sempre “per un amico”, e a me si gonfiano le vene del collo al solo leggerlo. Come è fin troppo evidente, quella era una Niguarda dall’economia contadina e lo sarebbe stata ancora per molti anni, e qui in fondo comincia questa storia, ché del marchio contadino ha tanto, e ora vediamo perché.
Con gli amici ci si trovava ogni giorno a giocare “al pallone” nei giardini di piazza Gran Paradiso, un piccolo fazzoletto d’erba che si trova ancor oggi a far da contorno al monumento ai caduti delle due guerre mondiali: se non si voleva andare fino all’oratorio – neanche troppo lontano – era l’unica alternativa per i ragazzi che abitavano in quell’incrocio di vie. Tutti in età compresa fra i 5 e i 12 anni, si correva dietro a una palla dal primo pomeriggio fino al calar del sole, in ogni stagione e in qualsiasi condizione atmosferica. Mai nessuna pausa, almeno finché al baretto di fronte arrivava il Giuan Matt, cioè il Giovanni Matto.
Contadino, aveva una cascina al limite del limite paesano, lavorava come una bestia da soma dalle 4 del mattino, unica lingua parlata era la bestemmia estrema ma, nonostante sul suo conto se ne dicessero di tutti i colori, per me doveva essere una brava e innocua persona. Si pensi che addirittura c’era chi narrava che passando davanti alla sua stamberga di notte si poteva sparire nel nulla e che poi i suoi maiali ingrassassero nei giorni a venire, ma si sa la gente com’è cattiva, in qualsiasi epoca la si faccia spettegolare. Unico dato certo del Giuan era che appena poteva – in genere nel tardo pomeriggio, smesso il lavoro perché sfiancato come lo sarebbe stato anche uno dei suoi manzi da tiro, e poco prima di andare a dormire, ché la sveglia al mattino era con l’alba – si ubriacava e dava il via al suo spettacolo irriverente fatto di battute infarcite di bestemmie di tutti i tipi, capaci di far arrossire i santi e lasciare a bocca aperta noi bambini e ragazzini, che al suo giungere mettevamo da parte il pallone, ci sedevamo sul marciapiede di fronte e stavamo lì a guardarlo pendendo dalle sue labbra.
E venne “quel” giorno in cui lo stupore raggiunse l’apice, e spiega anche perché son qui a raccontare. Il pomeriggio fatidico succede che quel simpaticone di zotico – età imprecisata collocabile fra i 35 e gli 80 anni, cappellaccio sghembo, barba incolta, sudato da far paura, canotta stracciata, camicia dal colore indefinito e braghe slacciate sulla pancia a barile – parcheggiato carretto e cavallo (il quadrupede conosceva la strada a memoria, arrivava e si fermava alla meta senza bisogno di nessun comando) anziché ordinare il solito litro di rosso marcio si fa portare un’aranciata e un Buondì Motta. Con sommo stupore di tutti gli spettatori, molto lentamente, il Giuan stacca un pezzo del Buondì per inzupparlo nell’aranciata. Poi, sempre come in un’azione al rallenty, si ficca l’improbabile farcitura in bocca, qualche secondo di pausa ancora per abituare le rozze papille alla sorpresa inaspettata poi, accompagnate da una smorfia che dice tutto, ecco le parole che non dimenticherò mai, pronunciate a voce ben alta e tonante a beneficio di tutti gli astanti: “L’è cume una ciavata sensa gust” che, tradotte dal vernacolo meneghino stretto all’italiano corrente suona così, più o meno e per non turbare le anime pure, che immagino ce ne siano – magari poche – anche fra voi lettori, vuol significare: “E’ come fare l’amore senza provare il benché minimo piacere”. A quel punto i ‘grandi’ si mettono a ridere come tarantolati; invece io ero il più piccolo della compagnia e non avevo capito quello che voleva dire, ma per atteggiarmi a loro pari ecco che mi sganascio anch’io, badando a mantenere impresse nella mente quelle poche parole in dialetto. Il tempo, poi, di arrivare a casa e di chiedere a mia madre di fare da traduttrice, giusto per rimediare uno schiaffone e la minaccia di andare a letto senza cena, per fortuna poi rientrata. Certo è che non ho osato più chiedere spiegazioni, ma poi ho scritto su un foglietto quindi ben celato laddove era il mio luogo dei segreti, che credo tutti noi a suo tempo ne abbiamo avuto uno, ma son convinto che i genitori lo trovavano e così sapevano quello che dovevano senza ufficialmente sapere.
Quando la mia età è diventata anche quella della ragione e del sapere dei grandi è stato facile tradurre le parole del Giuan, e la frase mi è sempre rimasta dentro per sempre, così come il film di quell’episodio, che rivedo come se fosse ora al solo pensarci.
Si converrà che finora non ho quasi parlato di calcio, men che meno di Mondiale, ma se si cerca la chiave di questa mancanza la si trova proprio nella frase mitica di cui sopra. A me questo Mondiale in Qatar, ancor più – molto di più – di quello di quattro anni fa coinvolge giusto al pari del fare l’amore senza provare il benché minimo piacere. Non ho vissuto nulla del premondiale, ho visto finora solo il gol del numero 10 dell’Arabia Saudita (però bellino, dai…), so che Messi forse resta senza Coppa per la quinta e ultima volta (e mi dispiace), che i tedeschi sono diventati i paladini dei diritti civili (apperò!) e che gli iraniani forse quando tronano finiscono dritti in galera (e qui son pronto poi a scendere in piazza). Vabbé ci può stare che le cadute di alcune grandi diano un po’ di sale (anzi: zucchero) a quell’aranciata inzuppata, che se i francesi vengono sbattuti fuori prima possibile un attimo il pugno in segno di accadimento positivo lo stringerò, e che se a vincere la finale sarà una squadra del tutto inaspettata a tanta ribalta sarò un po’ più contento piuttosto che a trionfare siano i soliti noti. Posso anche dire che – oltre alle squadre improbabili vittoriose finali in assoluto: tutte indistintamente – in qualche molto “tengo” all’Argentina (metà popolazione là è di origine italiana, così come i suoi giocatori, quindi va da sé), che in genere ho una grande ammirazione per i musi sporchi dell’Uruguay (meno quando incontrano gli azzurri, quindi stavolta ci sta) e una pari avversione opposta per inglesi e francesi (ma dei finti cugini ho già detto), avversione più fastidio di molto rafforzata per la squadra dei padroni di casa che, a leggere di cronaca i pochi abitanti – tutti ricchi come dei Mida – sono equiparabili a una setta di schiavisti con radici nel cretaceo, e che la Fifa dev’essersi ridotta a una combriccola di ladri di galline, però d’oro.
Quindi, immaginatemi idealmente a braccetto col Giuan Matt, e credetemi se vi dico che io e lui insieme diciamo che questo Mondiale “l’è cume una ciavata sensa gust”. Va là, forse guarderemo la finale e non è detto nemmeno tutta, ma proprio perché è quasi obbligo: una sorta di cartellino da timbrare controvoglia. Che finisca in fretta questa pantomima di plastica, di stadi container smontabili, di morti senza nome sull’altare del lavoro sottopagato, di aria condizionata improbabile e di libertà negata. Abbiamo invece voglia di tornare ad assaggiare calcio vero senza dover per forza essere costretti a provare smorfie di nessun tipo, da qualsiasi parte la si rigiri. E che il cielo del calcio planetario possa tornare di nuovo presto a tingersi anche d’azzurro perché lo sport più bello del mondo se lo merita. Poi ricordiamoci per sempre che snaturarlo in qualsiasi modo è imperdonabile. Non solo “sensa gust”, ma assolutamente disgustoso.
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