Storytelling

L’Olanda che mi passa per la testa

Tempo di lettura: 3 minuti
di Claudio Grattacaso

Zum zum zum

Sarà capitato anche a voi di avere una musica in testa. Non c’entra niente la Raffa nazionale. E nemmeno la sigla di Canzonissima o Sylvie Vartan, che pure interpretò il brano. È piuttosto l’ossessione di certe musichette che s’insinuano nella mente di primo mattino e, per quanto ci si sforzi, non vanno via in nessun modo. Zum, zum, zum zum, zum. Poi il tempo passa, e sei certo di essertene liberato, anzi non ci pensi proprio più. Stai alla finestra, in pigiama, guardi lo skyline al tramonto sorseggiando un Nespresso con l’aria di un George Clooney dei poveri, ed eccola che torna a galla. Senza preavviso. Zum, zum, zum.

Ad ogni Santo Mondiale Quadriennale, in esclusiva nel nostro immaginario di vecchi nostalgici del calcio che fu, ripiomba dal cielo la malia del calcio totale dell’Olanda degli anni ’70. Si porta appresso tutta la nostalgia di un Amarcord felliniano, la stonatura di ricostruire i movimenti (corali, plastici, ineffabili) e il cinismo dei giocatori olandesi col sottofondo di un samba, la poesia magica di un concerto di Natale che ti fa lacrimare di gioia. Perché l’Olanda degli anni ’70 era un’orchestra di musicisti anarchici, ognuno preda del proprio personalissimo spartito che, per incanto, s’incastrava alla perfezione con le melodie sovversive degli altri, tanto da formare, tra mille squilibri e dissonanze, un ineguagliabile ensemble armonico.

Johan Cruijff, il nome e cognome della creatività fatta persona. Accanto a lui un nutrito circo di frombolieri, gladiatori, giocolieri, slalomisti, addomesticatori di palle di cuoio, bohémien incalliti.

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ResenbrinkSuurbierVan Hanegem, Neeskens, Krol, Rep. Cani mordaci, sfacciati scippatori di pelota, architetti dalle planimetrie impossibili. Gli spietati gemelli René e Willy Van de Kerkhof, dirottati, con la macchina del tempo, da un film di Tarantino. E poi un portiere piuttosto scarso, dal nome che rimanda a un componibile Ikea più che a un estremo difensore. Jongbloed. Vestiva la maglia numero 8 e sapeva giocare coi piedi. Due scelte rivoluzionarie, per l’epoca. La costruzione dal basso, una geniale anticipazione del calcio che verrà. Come l’invenzione del pressing a tutto campo, la libertà dei difensori di avventurarsi ripetutamente in terra straniera, l’agguato contemporaneo di un manipolo di Mohicani arancioni al portatore di palla, la fastidiosa malizia della melina.

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Con tutto il rispetto per i giocatori del Qatar (e per le migliaia di operai morti durante la costruzione degli impianti sportivi) che hanno avuto a disposizione anni per prepararsi a questi Mondiali, non c’è partita, tutto congiura contro di loro. La storia, il calibro degli avversari, l’esperienza, la maturità tecnico-tattica, la

predisposizione ad affrontare un evento di portata intercontinentale. E la simpatia. (E qui un ruolo lo giocano i “padroni” del Qatar. Il rispetto dei diritti umani non è un corollario, è la sintesi stessa di qualsiasi manifestazione sportiva.)

Non è un caso se la punta di diamante della squadra qatariota si chiama Afif, un nome che letto al contrario esprime tutta la preoccupazione degli asiatici di sfigurare in questo incontro.

Se l’Olanda che partecipa ai Mondiali incarnasse, soltanto per una briciola, lo spirito dell’antenata che dava spettacolo negli anni ’70, arriverebbe senza alcun dubbio fino in fondo alla competizione. Perché nel calcio, è vero, contano la tecnica, le capacità, la prestanza e la condizione fisica, ma hanno altrettanto peso – tanto per rimanere in tema di samba – la voglia, la pazzia, l’incoscienza, l’allegria.

Dal petrolio non nasce niente, ma dalla spensierata anarchia organizzata possono nascere (e vincere) i fior. O, più precisamente, i tulipan.

Redazione

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