In una città che vive di pallone sette giorni su sette, separare la singola partita da un bilancio credibile fondato su un numero congruo di match giocati, è impresa titanica. L’amore viscerale per la squadra genera impazienza e malumori, soprattutto quando il risultato è negativo e la prestazione mostra contenuti poco incoraggianti rispetto a quelli attesi.
E non c’è valutazione dell’avversario che tenga, perché il desiderio di conquistare i tre punti e ritornare a gioire ti fa dimenticare, ad esempio, che hai appena perso contro una compagine assai attrezzata dal punto di vista tecnico, che il centravanti castigatore di giornata si accinge a toccare quota 200 reti in serie A, che ad espugnare l’Arechi è stato un team in piena zona Champions e non il Borgorosso Football Club del compianto Alberto Sordi.
Altrettanto autolesionistico è l’intero campionario degli “io l’avevo detto” che, puntualmente, viene sciorinato dopo i novanta minuti settimanali, con i ‘pro’ e i ‘contro’ a favore e contro qualcuno o qualcosa pronti a riemergere immediatamente e ad ampliare il solco esistente tra le diverse fazioni ed anime della tifoseria.
Ormai sembra che si sia più interessati a far valere le proprie ragioni – “Sabatini era più valente di De Sanctis”, “Paulo Sosa, con il materiale umano che ha a disposizione, non può far meglio di Nicola” e viceversa – che a nulla servono ai fini della missione principale, la salvezza, da portare a casa al termine di questa stagione, piuttosto che concentrarsi sul presente e posticipare i bilanci al tempo in cui il calcio giocato avrà emesso le sue sentenze definitive e lascerà il posto alle analisi fondate su dati oggettivi e incontrovertibili.
In questo senso, pertanto, appare quantomeno discutibile anche solo azzardare un parallelo tra le prime ventidue giornate del campionato e il nuovo corso inaugurato con l’avvento di mister Paulo Sousa. Perché le forchette temporali delle due gestioni sono inaccostabili e la differenza di opportunità e prove di campo è talmente sproporzionata da scoraggiare subitaneamente qualsiasi tipo di confronto.
Il trainer portoghese è giunto a Salerno da meno di una settimana, con alle porte i gravosi compiti di rimettere ordine all’interno di un caos conclamato, preparare una partita proibitiva dovendo fare a meno del calciatore più forte della rosa (Dia), parlare con tutti gli elementi presenti in organico e impartire le prime direttive tecnico-tattiche.
Sperare di sovvertire i pronostici, nonostante l’evidenza dei fatti, è operazione legittima e umanamente comprensibile. Pretendere che il terreno di gioco annulli in un sol colpo le differenze tecniche e nasconda sotto il tappeto la polvere dei tanti problemi esistenti, invece, è pura astrazione che sfocia in totale assenza di consapevolezza del contesto attuale in cui è immersa la Salernitana.
Fortunatamente, a restituire un po’ di serenità all’intero ambiente hanno provveduto i risultati conseguiti dalle diretti concorrenti (Spezia e Verona), anch’esse uscite sconfitte, rispettivamente, contro Juventus e Roma.
Candreva e compagni, al termine del ventitreesimo turno, conservano quattro lunghezze di vantaggio sugli scaligeri e due sullo Spezia. Il campionato è ancora lungo e ricco di insidie, poter contare però su questa piccola ed importante distanza aiuterà la squadra a preparare con maggiore tranquillità l’importante match casalingo contro l’insidioso Monza di mister Palladino.
Altrettanto fondamentale sarà la capacità della piazza di non alimentare il fuoco di polemiche fini a se stesse, che otterrebbero come unico risultato quello di incrementare la pressione avvertita dal gruppo, con il rischio concreto di contaminare negativamente la certosina ricostruzione (tattica, tecnica, mentale e temperamentale) che attende l’ex allenatore della Fiorentina e della nazionale polacca.
Preservare tolleranza e razionalità in sede di giudizio, però, non vuol dire evitare di evidenziare alcune criticità emerse nel corso dei novanta minuti che hanno visto soccombere i granata al cospetto di Immobile e compagni.
Consapevole dell’assenza di tempo e della carenza relativa alla conoscenza profonda dei dati prestazionali riguardanti il gruppo, nonostante la full immersion delle sue prime giornate salernitane, Paulo Sousa, nel suo primo cimento, ha imboccato senza tentennamenti la strada della concretezza, tentando di opporre ai più blasonati ed organizzati avversari un assetto tattico fondato su corsa, fisicità e grinta.
Approccio realistico e necessario, per nulla aderente però alla sua idea di calcio propositivo e teso a raggiungere i risultati attraverso l’aggressività e il protagonismo da esprimere in entrambe le fasi di gioco. La missione è durata lo spazio di un’ora, anche se le difficoltà sono aumentate gradualmente, a partire dal ventesimo minuto della prima frazione.
Ha iniziato egregiamente la Salernitana, schierata con un 3 4 2 1 molto compatto e aggressivo, palesando attenzione nelle marcature ad uomo esercitate nelle zone di competenza, con le tre linee collaborative nel proposito di togliere spazi e tempi di giocata ai calciatori di fosforo e qualità schierati da Sarri.
Nei primi dieci minuti di gara, i granata sono stati anche abili a ripartire dopo aver conquistato palla, con Candreva a dettare il passaggio sulla corsia destra e Bonazzoli a liberarsi tra le linee per favorire con repentini cambi di gioco le incursioni a sinistra di Bradaric; poteva addirittura scapparci il gol, ma è mancato qualcosa a livello di rifinitura e finalizzazione
Poi, la Lazio ha preso le redini della gara tra le mani, iniziando a lavorare ai fianchi la Salernitana, costretta a correre senza sosta dietro il palleggio fitto e accelerato dei rivali, sempre abili a far correre il pallone e a dare pochi punti di riferimento negli ultimi trenta metri. Un tourbillon che ha prodotto una costante crescita di fatica nei muscoli, nei polmoni e nella mente dei calciatori granata.
Dopo venti giri di orologio, Coulibaly e compagni hanno cominciato a perdere intensità, con gli attaccanti non più puntuali e tempestivi nell’accorciare sulla linea mediana, alla pari dei difensori meno sicuri nel lavoro ad elastico da eseguire insieme ai centrocampisti.
Gli spazi nella metà campo di casa sono aumentati, la Lazio ha saputo occuparli con continuità, beneficiando di migliori tempi di giocata ed arrivando pericolosamente al tiro in più di una circostanza. I ragazzi di Sousa hanno orgogliosamente lottato per fronteggiare le crescenti difficoltà e, con un po’ di fortuna, hanno terminato i primi quarantacinque minuti mantenendo inviolata la porta.
Pausa provvidenziale, necessaria per recuperare energie psicofisiche in vista del secondo tempo, con l’ingresso di Valencia al posto di Vilhena. Infatti, nelle prime battute della ripresa la squadra ha controllato meglio l’iniziativa biancoceleste.
A mutare il corso degli eventi ci ha pensato l’ingenuità della catena di sinistra granata (Pirola-Bradaric), lasciatasi ingenuamente beffare dalla giocata in velocità che ha spalancato una prateria a Marusic, bravo ad affondare e a servire un cioccolatino già scartato al famelico Immobile.
La partita è terminata in questo momento, perché una Salernitana già stanca ha accusato il colpo ed è stata costretta a subire ancor di più il palleggio e le ripartenze degli ospiti in spazi resi assai generosi dalla necessità di recuperare il risultato.
Una seconda ingenuità, targata Pirola-Sepe, ha permesso a Immobile di guadagnare e trasformare il rigore che ha chiuso definitivamente la contesa.
I cambi effettuati da Sousa non hanno favorito una già improbabile svolta tattica, con la fase offensiva risultata ancora più spuntata con l’ingresso in campo degli evanescenti Kastanos e Valencia.
Qualche dubbio, infine, resta sulla scelta degli interpreti iniziali. Premessa la condivisione di una gara di sostanza e finalizzata soprattutto ad inaridire le fonti di gioco laziali, due domande al neo tecnico granata ci piacerebbe rivolgerle e sono le seguenti: con un centrocampo altamente muscolare, poco portato a costruire e ad attivare tre riferimenti offensivi (Vilhena, Bonazzoli e Piatek) non esattamente esplosivi e veloci di rimessa, non sarebbe stato più proficuo affidare, considerata anche l’assenza di Dia, la trequarti a calciatori maggiormente abituati alla fase difensiva e a legare i reparti, recuperando magari anche un play basso (Bohinen, Nicolussi Caviglia), per guadagnare campo e corsie laterali e difendersi con minori affanni grazie ad un palleggio ragionato e in grado anche di togliere alla Lazio la costante iniziativa delle operazioni?
Costringere gli attaccanti ad un estenuante lavoro in fase di non possesso (Bonazzoli su Cataldi, Vilhena a ciondolare tra Casale e Marusic), senza avere le qualità in mediana per innescarli, non li ha usurati e resi ‘inservibili’ nel momento in cui sarebbero forse stati utili per provare a recuperare lo svantaggio?
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