Archiviata in fretta, senza danni sostanziali, la piccola sbandata temperamentale ed emotiva di Empoli, la Salernitana batte l’Atalanta e conquista con largo anticipo la salvezza.
E non c’è exploit dello Spezia che possa mettere in discussione questa certezza, logica conseguenza dell’ottimo lavoro svolto da Paulo Sousa e il suo gruppo.
Manca ancora un punticino per ottenere la sicurezza matematica, ammesso che le altre, vincendo ininterrottamente, siano capaci di sovvertire le leggi naturali del calcio.
La realtà tecnica del campo, unita alla crescente autostima acquisita dal collettivo e dall’intera tifoseria, invitano già a rivolgere lo sguardo alla prossima stagione.
Proposito legittimo da parte di una società e di una piazza decisamente ambiziose, senza per questo voler consegnare alla superficialità gli ultimi tre appuntamenti stagionali.
Anche perché, come ha ribadito ancora una volta il trainer portoghese, il futuro ambizioso altro non è che la sommatoria di tanti, significativi attimi presenti.
La squadra che verrà, il progetto sul quale si lavora già alacremente, apparterranno alla stessa catena che comprende anche le ultime tre gare di campionato.
Un altro mese all’interno del laboratorio Sousa, dove si curano meticolosamente i dettagli ed il tempo diventa un alleato prezioso e mai viene dissipato.
Non possono chiedere di meglio e di più gli stessi calciatori, consapevoli della fortuna di potere crescere sotto l’attento monitoraggio di un ottimo insegnante.
Che pretende tantissimo dai suoi ragazzi, ma allo stesso tempo li premia regalando loro l’opportunità di scandagliare a trecentosessanta gradi la materia calcistica.
Un percorso virtuoso che non si esaurisce esclusivamente attraverso la crescita tecnico-tattica, collettiva e individuale. Esso, infatti, indugia anche su altri principi ugualmente fondamentali in questo sport.
Lo spirito di gruppo, la ferrea volontà di essere sempre esigenti con se stessi, il desiderio di migliorarsi, non possono viaggiare separati dai concetti meramente pallonari.
Come in tutti i contesti della vita, la strada che conduce al successo è lastricata di sudore, fatica, determinazione, studio, passione ed umiltà. Quando entri in questo ordine di idee, recarsi all’allenamento smette di essere un ineludibile dovere e diventa una piacevole necessità.
Insomma, in attesa delle ultime risultanze e delle linee da disegnare sul foglio della futura pianificazione, è giusto godersi pienamente l’entusiasmo che si respira a contatto con l’Ippocampo.
Il feeling tra tutte le componenti – società, squadra e tifoseria – è una realtà sempre più consolidata. Nulla da spartire con lo stucchevole mantra propinato per anni dalla fallimentare gestione societaria precedente. Che chiedeva unità d’intenti, collaborazione ed entusiasmo, regalando in cambio dispotismi da quattro soldi, disorganizzazione, approssimazione tecnica e anaffettività.
Non è stato semplice, come era facilmente prevedibile, domare l’Atalanta di Gasperini, da anni una delle espressioni migliori del nostro calcio.
Nella prima frazione di gioco, infatti, i calciatori granata hanno incontrato diverse difficoltà ad arginare il palleggio nerazzuro. Quest’ultimo, favorito da una evidente superiorità numerica nella zona mediana, ha creato non poche apprensioni alla retroguardia campana.
La posizione tra le linee di Koopmeiners e Pasalic, ma anche la loro capacità di abbassarsi per favorire gli inserimenti dei due mediani bassi (De Roon ed Ederson), ha impedito spesso alla Salernitana di conquistare in fretta il pallone e ripartire.
Creando anche degli scompensi in sede di compattezza tra i reparti e occupazione degli spazi. Però è altrettanto vero che la grosse mole di gioco dei lombardi, grazie anche alla capacità di saper soffrire di Coulibaly e compagni, non si è mai tradotta in limpidissime occasioni da rete.
Zapata ha sciupato due discrete opportunità ‘aeree’, figlie però del precario presidio difensivo dei sedici metri. Ad esse, poi, va aggiunto un tiro dalla distanza di Ederson, sul quale Ochoa si è fatto trovare pronto.
La Salernitana, votata ad una gara estremamente tattica ed attendista, raramente è uscita dal suo guscio. Intenta a preservare gli equilibri difensivi, la squadra di Sousa ha inevitabilmente offerto agli ospiti riferimenti da marcare.
Qualche punturina di spillo è stata cagionata dalla tenace fisicità di Piatek, sempre abile nella difesa del pallone e nel creare spazi per i compagni. Al centravanti polacco vanno attribuiti i meriti per una punizione guadagnata ai venti metri e calciata centralmente da Mazzocchi. Ma anche per l’assist servito a Dia, che è stato neutralizzato ad un passo dall’ingresso solitario nell’area rivale.
Ben altra musica sono stati i secondi quarantacinque minuti di gioco. E non può essere solo un caso o la conseguenza dell’evoluzione del match. Già in tante altre occasioni, la Salernitana è uscita alla distanza, dopo una prima, lunga e conservativa fase di studio.
Si ha quasi l’impressione che l’ex allenatore della Fiorentina voglia giocarsi le sue carte migliori nella fase finale delle contese. Quando l’avversario è più stanco e le opportunità offensive hanno maggiori possibilità di essere incisive e letali.
Ad onor del vero, bisogna anche sottolineare che i due cambi – uno forzato – operati da Gasperini ad inizio ripresa non hanno giovato alla causa orobica. Gli ingressi in campo di Okoli al posto dell’infortunato Soppy e quello di Hojlund in luogo di Pasalic, hanno un po’ sfarinato il blocco monolitico che aveva tenuto saldamente tra le mani il controllo della partita. Finendo per allungare la squadra. Perché il giovane centrale difensivo di origini africane non ha la gamba e la qualità per essere costante lungo le corsie laterali, mentre l’attaccante danese è bravo ad attaccare la profondità, meno a legare la manovra e a garantire anche interdizione sulla trequarti.
Però il grosso merito per la seconda parte di gara garibaldina è da ascrivere soprattutto all’approccio tecnico-tattico e motivazionale che Sousa ha saputo trasmettere a Dia e compagni.
La linea difensiva ha spostato in avanti il baricentro, è diventata aggressiva sulle punte atalantine, consentendo agli esterni e ai centrocampisti di accorciare le distanze dal terzetto offensivo.
Coulibaly e Vilhena hanno conquistato le redini del centrocampo, iniziando a macinare idee, a pressare furiosamente i dirimpettai, a ripartire negli spazi una volta conquistato il pallone. Il tutto caratterizzato da grande intensità atletica, coraggio, chiarezza di idee e qualità tecniche. Almeno uno dei due – ma in diverse occasioni anche entrambi – a turno ha operato da autentico trequartista.
Questo forcing tambureggiante ha ridotto drasticamente i tempi di trasmissione del pallone, favorendo le punte che, posizionate vicine, sono entrate finalmente nel vivo del gioco, arrivando a concludere o vestendo i panni di assist man.
Intensità, verticalità dell’iniziativa offensiva, coraggio e sicurezza nei propri mezzi, hanno registrato un corposo incremento con i contributi degli estrosi Kastanos e Candreva, subentrati nella seconda parte della ripresa.
L’Atalanta è entrata in un circuito di complessità crescenti, facendo tremenda fatica ad uscire dalle corde in cui l’ha imprigionata la squadra di casa. Un’azione estemporanea di Muriel, con conclusione terminata alta sulla traversa, non ha trovato la necessaria continuità.
Ed alla fine, ad un passo dal traguardo, Ederson e compagni, ormai esausti, sono stati costretti ad abbassare il capo.
Quando, al terzo dei cinque minuti di recupero, Candreva ha immaginato il suo splendido gol prima ancora di realizzarlo concretamente. Smistando di prima il pallone alla ‘torre’ Piatek, che altrettanto mirabilmente lo ha restituito con la precisione e i tempi giusti. Il famelico Antonio, appostato già nei pressi dell’area rivale, ha raccolto l’invitante suggerimento del compagno e calciato avvalendosi di un potente tiro con il collo esterno del piede destro.
Una sentenza definitiva per il malcapitato Sportiello. Una gioia incontenibile per la torcida granata, fradicia d’acqua ma finalmente felice e orgogliosa per l’entusiasmante ascesa del Cavalluccio.
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