L’Uruguay è uno di quei paesi dove dovrebbero mettere delle porte di calcio alle frontiere. Al visitatore sarebbe chiaro che quel paese altro non è che un gran campo di football con l’aggiunta di alcune presenze accidentali: alberi, mucche, strade, edifici…
Lo storiografo e genealogista Juan Alejandro Apolant, nel suo libro Origini della famiglia uruguagia, riporta il documento d’acquisto di una azienda agricola a levante della foce del torrente Miguelete, a Montevideo. Il documento risale al 1775 e fa rifermento a tal Giambattista Crosa, figlio dell’avvocato Francesco Crosa, di famiglia benestante di origine italiana. Piemontese, per l’esattezza. Nato a Pinerolo nel 1730, Giambattista sbarca in Uruguay nel luglio 1765, in un’epoca in cui l’anagrafe aggiunge ai cognomi il luogo di provenienza di chi arriva: Crosa diventa così Crosa Pinerolo, ma la sinuosa parlata rioplatense ne forgerà la pronuncia per consegnarlo alla storia.
Crosa compra una tenuta nella zona più rurale della Montevideo che va espandendosi, e ne fa una pulperìa sotto l’insegna El Penareul: osteria alla buona, diverrà emporio prima, poi locanda, infine punto di riferimento di una comunità che bonifica e poi colonizza il territorio. Ai tempi di Crosa, nessuno sa come si chiami quel posto, ma col passare degli anni prende il nome della locanda. Per tutti e da allora, quella lì è Peñarol.
Alla fine dell’Ottocento, la società ferroviaria inglese Central Uruguay Railway, oltre alla strada ferrata, provvede a edificarvi le abitazioni degli operai. Il quartiere si espande, alle case si aggiungono le attività sociali, civiche e culturali, l’impronta anglosassone fatalmente compie l’evangelizzazione degli autoctoni, cui viene insegnato il gioco che loro hanno inventato: si pratica con la palla tra i piedi, il popolo se ne innamora. Il 28 settembre 1891 viene fondato il circolo sportivo Central Uruguay Railway Cricket Club: tra le sue fila, compare pure una squadra di fútbol: in ossequio al lembo di terra che fa da cornice al racconto, darà vita nel giorno di Santa Lucia del 1913 al Club Atlético Peñarol.
I fondatori scelgono i colori giallo e nero, tipici dei segnali ferroviari dell’epoca. Pensano allo stemma, composto da nove bande verticali e undici stelle, una per ogni calciatore. Ottengono il soprannome di Carboneros, dalle locomotive a carbone di inizio novecento. E si fanno presto dei nemici. Uno su tutti.
Il Nacional Montevideo nasce nel 1899 affinché la città abbia una squadra di giocatori del posto, differenziandosi da quelle degli inglesi. I colori sociali -il blu, il bianco e il rosso- sono i simboli della Patria. Per tutti, il Nacional è la Tricolor. Incarna lo spirito nazionalista che sfocia nel fanatismo quando il capitano Abdòn Porte si suicida, una volta resosi conto che doveva ritirarsi. Da allora, di fatto, l’Uruguay si è diviso: se non tifi Nacional, sei per forza del Peñarol. La contrapposizione è totale.
Teatro dell’agone è l’Estadio Centenario, nominato dalla FIFA monumento storico del calcio mondiale. In occasione dei derby, vibra di sessantacinquemila anime assetate del sangue degli astanti. Da una parte la Tribuna Colombes, dal nome dalla città francese in cui la Celeste ha vinto l’oro nel ’24. Ospita la Banda del Parque, tremenda hincha tricolore. A proposito. Hincha, in America Latina, è il termine usato per definire le tifoserie del calcio. All’inizio del secolo, Miguel Reyes è l’unico uruguagio a seguire la propria squadra in casa ed in trasferta, urlando incitamenti al Nacional dal primo al novantesimo. Il grido di battaglia è semplice, secco, incisivo.
Hincha la pelota
Nel dialetto rioplatense sta più o meno per ficcala in rete. Siccome laggiù tutto conduce ad un apodo (soprannome), Miguel diventa per tutti el hincha. Per traslato, il nomignolo definirà tutti i tifosi del paese. E poi del continente, almeno quello che parla lo spagnolo.
Dall’altra parte si staglia la Tribuna Amsterdam, dalla capitale olandese in cui la Celeste ha vinto l’oro nel ‘28. Ospita la Barra Amsterdam, cruento coacervo di anime aurinegras. È la più antica rivalità del calcio che si giochi fuori della Gran Bretagna, ed ha scritto una delle pagine più incredibili della storia del Gioco. Mentre dall’altra parte dell’oceano Mussolini sta allestendo la prima edizione europea della Coppa Rimet, a Montevideo si è concluso l’incredibile campionato di calcio del 1933.
Peñarol e Nacional sono in vetta alla classifica, appaiate in tutto. Pari punti, stessi gol segnati, una vittoria per uno. Per determinare chi fosse il campione, si rende necessario lo spareggio. Il 27 maggio 1934 l’Uruguay è paralizzato, in attesa che il campo decreti il verdetto.
Il terreno di gioco è una Plaza de Toros: i ventidue in campo non risparmiano energie, calci né sputi. Ognuno di loro è disposto a morire pur di vincere, ma a metà del secondo tempo è ancora 0-0. Quand’ecco, parte improvviso un tiro a rete di Pellegrìn Anselmo, delantero del Peñarol. La palla finisce al lato della porta del Nacional dove, per un motivo che non conosceremo mai né può avere un senso se non in Sudamerica, il medico del Nacional ha dimenticato la valigia. La palla sbatte proprio sulla valigia, torna in campo e viene ribadita in rete da Braulio Castro. Più per istinto che spirito di frode, suppongo. Fatto sta che il Peñarol esulta, il Nacional impazzisce e comincia una rissa senza prigionieri, che si estende in un attimo dal campo agli spalti. L’arbitro espelle due della Tricolor e scappa negli spogliatoi. Le mazzate proseguono finché cala il sole. Senza luce, la partita non può finire.
Impreparata all’evenienza, la Federazione impiega tre mesi per decidere che la partita va ripresa dal momento dell’interruzione. Senza i due espulsi del Nacional. Novanta giorni dopo il gol con la valigia, va in scena quel che resta del derby. Sarà tramandato quale Clásico de los Nueve contra Once: sebbene in doppia inferiorità numerica, il Nacional, resiste e porta a casa il pareggio. Tre mesi dopo la fine del campionato di calcio, l’Uruguay non ha ancora un campione. Si tornerà in campo il 2 settembre, ma finisce ancora pari.
La sfida decisiva si disputa il 18 novembre 1934. Il Peñarol, avanti di due reti, viene rimontato dal centravanti del Nacional Hèctor Castro detto il Monco: una mano gli è saltata al lavoro, in segheria. La sua tripletta pone fine alla partita più lunga della storia, durata sei ore e mezzo di gioco e quasi sei mesi. Da quel giorno, a Montevideo, il Clásico tra Nacional e Peñarol è diventato il Superclásico.
Non avrebbe più smesso di infiammare una città, una nazione, un popolo intero.
Perché è vero: gli inglesi hanno inventato un Gioco e lo hanno portato al di là dell’Atlantico. Al di là dell’Atlantico, tuttavia, è stato inventato l’amore per quel Gioco lì.