di Ciro Romano
Zè Luciella s’era scetata storta. E quandummai, aggiungerebbe il pover’uomo se leggesse.
Correva un anno, non ricordo quale ma è tanto tempo fa. Prima ancora della tazzulella di cafè, Saverio Bevilacqua s’era fatto la croce con la mancina, chè già sentiva la moglie pipitiàre. Dopo trent’anni non dico che ti fai capace, ma più di tanto non combatti.
Bolliva sul fuoco la zuppa di verza e patane, quello era. Però in dispensa era finito il sale ed alla minestra ne occorreva giusto un ultimo, fondamentale pizzico: la megera in mantesino, bassa e tarchiata, rivolge il buongiorno al malnutrito consorte.
Viestet e va accatt’u ssale.
Saverio stringe le labbra, inarcandole: volta le spalle, struscia i piedi fino al bagno e balbetta l’ennesimo Oggi è ‘na mala jurnata della sua vita coniugale.
In vicolo Antica Corte la mattina non arriva il sole. Mimì il salumiere sta a due passi dal portone, ma a Saverio è venuto lo sfizio e fa il giro largo. Piega a sinistra per l’arco della Dogana Vecchia, ciondola verso i Canali, poi volta per la Pietra del Pesce, chè lassotto si mette il carrettino delle franfellicche. Una, una sola: Oggi teng u vulìo. La scartoccia, la sugge, la giornata pare raddrizzarsi.
Sbuca trionfante su via Roma, torna verso Santa Lucia. Sorride a Filuccio il fruttajuolo, mostra il palmo al Guardio e prosegue per comprare il sale. Quand’ecco: la botta in fronte. Davanti alla chiesa domina la piazza, statuario, don Vicienzo Scellone: doppiopetto d’ordinanza, bastone col manico d’argento, borsalino in testa e consorte al lato.
Ora dovete sapere che alcuni anni prima Saverio era in difficoltà – economiche, che me lo dici a fare? – e si vedette costretto a ricorrere al buon cuore di don Vicienzo. Che a tassi insostenibili veniva gentilmente incontro ai malcapitati in bancarotta. Saverio aveva pure restituito la somma, ma il debito pareva non si estinguesse mai. Ed ogni volta che lo vedeva, la coda finiva tra le gambe.
Uè Savè buongiorno. Mea rà niente?
Tremulo e balbettante, Saverio esordisce con una scusa. Poi una giustificazione, la lamentela per quel malanno ed infine l’errore fatale.
Don Viciè, in questi giorni vi apparo ma ditemi: volete farmi l’onore di pranzare con la Vostra Signora a casa mia?
Più per schiattiglio che per altro, don Vicienzo nientedimeno accetta. Apriti cielo. Spicciata la faccenda del sale, Saverio torna a casa cogli sgraditi ospiti. Apre la porta, fa strada, li fa accomodare su di uno sdrucito sofà. La signora Scellone dissimula sdegno sedendosi alla punta colla schiena inarcata ed i gomiti stretti al tronco: il marito tracotante si scravacca. Zè Luciella li vede, sbanda, soffoca a stento la jastema. Poi prova a sorridere ed abbozza il salamelecco. Infine convoca Saverio in cucina. La tensione è palpabile, il marito è pronto alla resa. Palmo della destra all’insù, pollice ed indice raccolti e le altre tre dita verso il muso di Saverio: la sentenza è un sibilo.
Enna magnà e se nenna ì. Po’ facimm i cunt iettè.
Zè Luciella era pure una brava cuoca, devo dire la verità. Però se non teneva genio te ne potevi scordare. Dal canto suo, don Vicienzo apparteneva ai Cacchietielli, e quella gente subito s’incazza se non mangia bene. Com’è, come non è, a quella minestra mancava giusto un trecalle di sale: col quale sarebbe stata perfetta, senza il quale risultava immangiabile. Misteri della zuppa patane e verza: non c’è pezzenteria senza difetto. Non so se per far dispetto o cosa, Zè Luciella quel trecalle di sale non lo aggiunse.
Una volta a tavola, il contrito silenzio accompagnò il primo boccone di don Vicienzo. Mise in bocca, assaporò, trasfigurò.
Pe n’acino i sale avit perz a menesta. Marì, iammuncenn.
La reazione di Zè Luciella fu scomposta: tavola all’aria, Saverio affonda disperato la faccia nelle mani, la precipitosa fuga degli ospiti. Che erano entrati coi Lorsignori e se n’erano usciti coi Chitammuorti.
E chest’è.
Il turno infrasettimanale EuroCadetto ha offerto simpatici spunti di riflessione, taluni riconducibili alla summenzionata vicenda popolare. La Salernitana ha confermato a Vicenza la discreta struttura cui manca un po’ di buono qua e là perché si possa parlare di squadra da vertice. Si legga bene, vertice. L’esordio in Champions della Lazio, invece, s’è trasformato nell’epifania di Akpa Akpro.
Orbene, non so se siete a conoscenza che i proprietari della Salernitana sono gli stessi della Lazio. Che Akpa l’anno passato giocava proprio a Salerno. Che alla corte di Castori, di fatto, non è stato propriamente sostituto. L’esordio con gol al BVB toglie probabilmente valore al ragionamento, però diamine. Alla Lazio il giovanotto, diciamocelo, poco mette e poco leva. Alla Salernitana, in questa
Salernitana, avrebbe costituito il tassello ideale a trasformare una buona squadra nella squadra da battere.
Considerato che ciò che cade da bocca e va ‘nzine non è mai perduto. Rilevato che il giroconto sarebbe costato meno, molto meno di un trecalle. Appurato che quest’anno la Minestra Salernitana è venuta un poco meglio. Cavolo: ci fate pensare a male. Vuoi vedere che non avete voluto rischiare?
Ed allora ai Salernitani non resta che affidarsi alla saggezza popolare. Guardare a Lotito come a don Vicienzo, che prima ti aiuta e poi sei debitore a vita. Paragonare Akpa a quell’acino di sale, senza il quale si rischia di buttare via la buona minestra, a meno che non sia stato risparmiato per far dispetto ai commensali. Ed evitare di far la fine di Saverio Bevilacqua: ché se hai un atteggiamento troppo dimesso, finiranno col mandarti a comprare il sale.