Nelle ultime settimane, come una sorta di mantra tibetano, abbiamo spesso letto e ascoltato rimpianti sull’inizio di stagione pirotecnico della squadra granata. La goleada contro la Sampdoria, il primo tempo arioso disputato al Dall’Ara di Bologna e a Torino contro la Juventus, rappresentavano la strada perfetta da percorrere per il resto del torneo.
Dimenticando che il calcio non è materia statica, che il pallone ha poco da spartire con un processo incorruttibile che sviluppa le sue tappe senza prevedere revisioni in corso, metamorfosi e adattamenti resi necessari dalle contromisure adottate dagli avversari, ma anche dai condizionamenti psicofisici che emergono sistematicamente in qualsiasi gruppo di lavoro.
L’esordio multicolor, figlio dell’entusiasmo ancora vivo prodotto dall’insperata salvezza e da un calciomercato ricco e affascinante, avevano generato un surplus di euforia che, avvolgendo la squadra fino a farla volteggiare con profitto diversi metri dal terreno di gioco, era riuscito a ingolosire anche le ataviche e legittime aspirazioni dei seguaci dell’Ippocampo.
In questa marea crescente di propositi ambiziosi e ‘bellicosi’ ha giocato un ruolo determinante la stessa società, che ha iniziato a martellare su scenari poco aderenti alla realtà o, nel peggiore dei casi, più prossimi ad una precipitosa e autolesionistica fuga in avanti.
Poi accade che i rivali, anch’essi attrezzati per ben figurare, ti studiano con attenzione e colpiscono mentre già pregusti nuovi paradisi da conquistare e gradualmente abbassi l’intensità della battaglia. E succede che l’ambiente inizia a mugugnare se una gara, abbordabile sulla carta, presenta delle difficoltà neppure considerate alla vigilia.
Arrivano le prime delusioni (Empoli), che ti trovano quasi impreparato e generano nervosismo e riduzione dell’autostima, seguite da autentici capitomboli (Lecce e Sassuolo) che ti allontanano dalla retta via e ti inducono a gettare anche il bambino insieme all’acqua sporca.
Fortunatamente, le sofferenza di una storia secolare, quella della Salernitana, fanno squillare il provvidenziale campanello d’allarme, distogliendoti da un bel sogno che stava lentamente trasformandosi in incubo, restituendoti, finalmente desto e consapevole, ad un sano realismo.
Via orpelli e barocchismi pagati a suon di gol subiti, di punti smarriti per strada e avventurismi tattici, per lasciar spazio ad una concretezza intrisa di agonismo, oculatezza gestionale, adattamento alla sofferenza, desiderio costante di mettere fieno in cascina e allungare le distanze dalla zona rossa della graduatoria.
Ogni opera che si rispetti necessita di tre stadi: 1) progetto; 2) fondamenta, pilastri e costruzione; 3) Decorazioni, estetica e rifiniture che conferiscono valore. I tre processi devono materializzarsi in rigoroso ordine cronologico, evitando frettolosi accavallamenti, se non si vuol correre il rischio di veder la casa venir giù alla prima scossa tellurica.
Il progetto (organizzazione societaria, progressivo potenziamento logistico e strutturale, rafforzamento tecnico della squadra) procede a gonfie vele e inizia a gettare le fondamenta di un palazzo destinato a diventare solido e stabile. Però bisogna assolutamente evitare che questa virtuosa dinamica, ancora in divenire e tutta da consolidare, sia compromessa dal desiderio spasmodico di prendere già dimora nel futuro edificio accogliente ed elegante ma non ancora munito di tutti i servizi essenziali.
Dal punto di vista tecnico-tattico, Davide Nicola ha intuito tempestivamente che i ghirigori calcistici e le pretese estetiche da presunta grande del calcio italiano avrebbero fatto precipitare lui e il gruppo in un abisso di paure e incertezze, trascinando nel burrone anche un ambiente che non è mai stato campione di equilibrio e pazienza.
La squadra sta imparando a soffrire, ha compreso che in serie A non esistono gare facili e avversari addomesticabili, che bisogna accantonare la livrea, indossare la salopette operaia e aggiungere punti preziosi alla classifica. Punti sporchi e cattivi, ma sempre meritati perché ottenuti grazie alla coesione del team, al rigore tattico e allo spirito di sacrificio collettivo.
Anche ieri contro lo Spezia, come era già accaduto nel match casalingo con il Verona, la Salernitana ha saputo soffrire umilmente, prima di prendere le misure all’avversario, colpirlo e depotenziarlo fino allo scoramento.
Inizio di match complicato, perché gli spezzini, sulla scorta delle ultime, conservative prestazioni granata, sono scesi sul manto erboso dell’Arechi con il chiaro intento di aggredire le paure dei padroni di casa attraverso un gioco corale e vivace, caratterizzato da circolazione veloce di palla, inserimenti imprevedibili e attacchi alla porta di Sepe portati con più uomini.
La strategia di mister Gotti è stata quasi irriverente, con i suoi tre difensori centrali che spesso affondavano senza remore nella trequarti granata, alimentando la qualità degli elementi più talentuosi (Agudelo, Bourabia, Holm e Nzola).
La prima mezzora è stata davvero complessa per la Salernitana, sottoposta ad un notevole stress mentale e fisico, in quanto risultava spesso in affanno e in inferiorità numerica in tutte le zone del campo. Il cambio di mentalità ha fatto la differenza rispetto al passato, con la squadra che non si è lasciata andare, comprendendo immediatamente di dover lottare centimetro su centimetro per tener testa alla spavalderia rivale.
La difesa ha retto l’urto alla grande: Fazio, Gyomber e Daniliuc, esibendo scaltrezza, fisicità e furore agonistico, non hanno mai mollato, concedendo solo un tiro (Agudelo), respinto prontamente da Sepe.
Nicola, però, è stato bravo a rivisitare la sua strategia. L’ex trainer del Torino, registrata la difficoltà ad intralciare la costruzione spezzina dal basso, ha distribuito compiti precisi ai suoi uomini: mezzali ad uscire sui braccini difensivi liguri, Bourabia e Kiwior attenzionati da un Radovanovic non più di presidio ma aggressivo e dal sacrificio delle punte. Il tutto completato dagli esterni a pressare subitaneamente i loro dirimpettai e da una linea difensiva più alta e abile nel ridurre gli spazi in cui si muovevano Agudelo, Nzola e Gyasi.
Contestualmente, sono cambiate anche le direttive offensive: verticalizzare immediatamente una volta conquistato il pallone, attaccare gli spazi tra le linee e lungo le corsie laterali, cercare l’uno contro uno e, soprattutto, far capire allo Spezia che doveva iniziare anche a guardarsi le spalle. Un paio di sortite di Dia ed altrettante di Mazzocchi e Candreva, maturate sul finire del primo tempo, hanno anticipato il cambio di rotta della ripresa.
Come testimonia l’azione vincente targata Bonazzoli-Candreva-Mazzocchi che ha regalato il vantaggio ai padroni di casa e sottratto verve e serenità agli ospiti.
Lo Spezia ha cercato di rimediare, anche attraverso il 4 2 3 1 iper offensivo della parte finale del match, continuando a tenere sotto pressione la Salernitana, che, però, non ha più ballato come nel primo terzo della contesa e in più circostanze ha sfiorato il raddoppio.
In questo contesto di gestione del risultato, anche i cambi operati da Nicola hanno conferito robustezza e dinamismo alle due fasi di gioco, con Bradaric che ha dato, in ottica futura, un saggio sulle sue qualità.
Vittoria ampiamente meritata, basti vedere la sostanziale inoperosità di Sepe e le prodezze sfornate da Dragowski nella fase conclusiva della partita.