Le attese, squarci nel reale. Terra di mezzo fra instabilità emotiva e rabbia.
Segnali convenzionali: reinterpretazioni giustizialiste sul buon nome di un’intera città. Ad un sorso di birra dalla Storia v’é una capitale del mare oltraggiata.
Scalpiccìo, più che scalpiccio una vera e propria bufera fuori stagione. Quella che – con buona pace di chi implorava la nobile arte della bocche cucite – ha travolto il brusio, a metà strada fra febbre e impazienza, di un popolo che nutre il sogno proibito di levare gli ormeggi.
C’è stato un tempo quasi infinito – boutade dell’attesa – in cui l’Italia intera ha deciso di occuparsi del caso Salerno: il GrassadoniaGate. Una famiglia tradotta, nottetempo, in quel di Pescara: neanche si trattasse di collaboratori di giustizia, neanche fossero i Savoia nel settembre ’43. Fu così che una cittadina grossomodo tranquilla si tramutò, per l’immaginario collettivo, nella Srebrenica del ’95.
Nel frattempo, uno sciame di editoriali, servizi su scala nazionale – dipinti a suon di titoloni e fronti corrucciate – per raccontare la deriva violenta e militarista del regime granata.
Salerno travolta dal male dei nostri giorni: la viralità. Ci si ritrova ad essere fulcro di ogni discussione, come se non esistesse più altro argomento. Chiaramente scaturita da una situazione odiosa e condannabile di cui, però, si è anche noi vittime: perché orfani di chiarezza e informazioni. Altro che mandanti. Ancor meno omertose cartoline di quel dannato Sud alimentato a stereotipi, come qualcuno ama far credere.
È il nostro assurdo neorealismo, è la sorte che ci concede l’ennesimo valzer nella polvere. Più si tende a dirottare altrove ogni attenzione, più i fanali ci inchiodano al muro.
Nel giorno più caldo, fra i sentieri di una sofferenza in predicato, siamo colpiti dall’ennesima assenza da metabolizzare.
Alla squadra, ora, il compito più impegnativo: isolarsi mentalmente e combattere come sa. Per chi c’è, per chi c’era, per chi ci sarà.